Imparare da Atene: così suggerisce Adam Szymczyk, curatore della Documenta 14, con due teste e un’unica anima divisa tra Atene e Kassel, la Grecia e la Germania, il nord e il sud di un’Europa che fa sempre più fatica a restare unita. Premesso di non aver visto la mostra ad Atene, ma dopo la seconda visita a Kassel la trama concettuale, politica e teorica della mostra mi appare più chiaramente, come accade per un libro di contenuti profondi, che si comprendono nella loro complessità solo ad una seconda lettura, più attenta e meditata. E così il gesto politico del curatore appare evidente nell’aver accolto all’interno del Fridericianum la collezione permanente del Museo Nazionale di Atene, non esposta da alcuni anni, dove opere significative di artisti internazionali come Gary Hill, Mona Hatoum, Bill Viola, Jannis Kounellis e Kendell Geers dialogano con lavori di artisti greci delle ultime generazioni, che possono essere apprezzati dal vasto pubblico della Documenta. L’operazione sottolinea in maniera stringente l’intera struttura della mostra, che nei suoi aspetti tematici di grande rigore si avvicina più ad un testo, che ad un’esposizione stricto sensu, dove l’apparato visivo dovrebbe essere predominante.
Invece Documenta 14 è un immenso archivio di opere che portano con sé memorie più che immagini, testi più che figure, dove le problematiche del presente vengono analizzate attraverso la lente della storia d’Europa. A cominciare dalla Neue Galerie, svuotata delle sue collezioni per fare posto allo sfaccettato palinsesto della manifestazione. Una trama di tematiche che attraversano l’intera mostra, in un gioco di rimandi tra memoria e attualità, identità nazionale e globalizzazione, ricchezza e povertà, storia tedesca e problematiche migratorie, architettura e società, mito e rimozione, proprietà e restituzione.
Elisabeth Wild, Collages, Installation view, ODEION © Mathias Voelzke
Ogni tema si sviluppa nelle diverse sedi espositive, caricandosi o meno di senso a seconda della natura dei singoli spazi, siano essi neutri o connotati da altre storie, in una sorta di intricato labirinto tra immagini, opere, documenti e scritture dove è facile smarrire il filo del senso. E da questa tessitura intricata e non sempre comprensibile nelle sue coordinate di lettura, emergono alcune opere più significative, come boe di salvataggio in un oceano, che si ergono ad exempla delle istanze sviluppate all’interno della Documenta.
Nella Neue Galerie spicca la vicenda di Lorenza Buttner, transessuale morto di Aids nel 1994 a Kassel, che dipingeva con i piedi essendo privo di entrambe le braccia, che introduce il tema del corpo e dell’identità femminile, molto presente alla Neue e declinato nei suoi diversi aspetti da artiste come la rumena Geta Bradescu e l’italiana Maria Lai, entrambe presenti con puntuali sale monografiche al piano terreno del museo. Inquietante il rapporto tra Real Nazis di Piotr Uklanski, che riunisce un centinaio di ritratti di gerarchi nazisti, e la sala della collezione permanente dedicata alle opere di Joseph Beuys (l’unica a non essere disallestita) , quasi a sottolineare l’ambiguità del popolo tedesco, mentre un tocco di leggerezza proviene dalla sala dedicata a Elisabeth Wild, con gli acquarelli di ispirazione neo costruttivista eseguiti nel 2017 da un’artista quasi centenaria. Al primo piano la protagonista principale è Maria Eichorn, con le sue installazioni dedicate agli archivi di libri e opere d’arte sequestrate dai nazisti agli ebrei, ma sono altrettanto degni di interesse Such a morning, l’intenso video dell’indiano Amar Kanwar e il ritratto di Arnold Bode, fondatore della Documenta, dipinto nel 1964 da un giovanissimo Gerhard Richter.
Piotr Uklanski, Real Nazis Neue Galerie © Nils Klinger
Ci spostiamo al Palais Bellevue, dove si concentrano opere dedicate alla guerra e al rapporto tra arte, architettura e paesaggio: se il video di Regina Galindo La sombra appare poco incisivo e piuttosto irreale, ben più articolata ed interessante ci sembra l’opera di Mary Zygouri, dedicata al massacro nel quartiere di Kokkinia ad Atene nel 1944, insieme alla sala dell’australiana Bonita Ely, che mette in relazione il mondo militare e la dimensione domestica in maniera non banale e sorprendente. Da non perdere Lost and Found, il video di Susan Hiller sulle lingue scomparse, esposto al Grimm Museum insieme ad un piccolo ma prezioso gruppo di opere legate alla narrazione di storie e favole, mentre al Museo della Scultura Funeraria spiccano le fotografie scattate ad una tribù di aborigeni australiani negli anni trenta da Thomas Dick e i disegni della coppia di performer Prinz Gholam.
Una delle sedi più convincenti per la perfetta sintonia tra opere e spazio espositivo è il Landes Museum, dedicato a lavori di artisti extraeuropei come l’iraniana Nairy Baghramian, che ha realizzato The Iron Table, una installazione ispirata ad un racconto di Jane Bowles, il gruppo di artisti neozelandesi Maha Aho Collective, con Kiko Moana, un tessuto azzurro ispirato all’arte maori, e infine le opere fotografiche dell’indiano Gauri Gill, dense di riferimenti all’arte popolare e alle pratiche religiose indù. Tra i dipinti figurativi dell’albanese Edy Hila, presenti nelle diverse sedi della Documenta, i più interessanti sono le visioni architettoniche metafisiche esposte all’interno della Tor Wache, rivestita da sacchi di cacao dal ghanese Ibrahim Mahama, già presente alla Biennale di Venezia del 2015.
Mary Zygouri Round Up, Installation view Museum Madra Blokou Kokkinias © Angelos Giotopoulos
Alla Neue Neue Galerie, che occupa la sede dei magazzini dell’ufficio postale della città di Kassel, aperto nel 1975, trovano spazio le opere prodotte per la Documenta, quasi tutte ispirate ad eventi politici, come l’assassinio del ragazzo turco Halit, ricostruito dal collettivo The Society of Friends of Halit, oppure Pile O Sapmi, l’installazione di Maret Anne Sara realizzata con i crani delle renne uccise dal governo norvegese nel 2007 per affamare la tribù Sami. Di scenografico impatto Atlas Fractured, interessante video installazione di Theo Eshetu, e altrettanto suggestiva Staging, la performance di Maria Hassabi con i performer che si muovono molto lentamente su un grande tappeto rosa, mentre la grande tradizione della fotografia tedesca rivive nelle immagini di paesaggi e architetture in bianco e nero di Ulrich Wust, prima di arrivare alla sala di Artur Zmijewski, occupata dalla videoinstallazione Realism, cruda e rigorosa nell’affrontare le problematiche di chi ha perso una gamba. Tra gli spazi mai usati in precedenza come sedi della Documenta va citata l’antica stazione sotterranea della metropolitana, con l’installazione The Course of Empire del francese Michel Auder, con il suo ritmo martellante di immagini video che raccontano con ritmo sincopato gli ultimi trent’anni della nostra storia. Un’altra sede da non tralasciare è l’Ottoneum, che ospita il museo di storia naturale: qui le opere hanno tutte riferimenti alla natura e al paesaggio, a partire da Preak Kunlong, il video di Kvay Samnang ispirato a rituali primitivi e girato nella foresta cambogiana, in un originale contrappunto con gli scatti urbani del nigeriano Akinbode Akinbiyi.
Maria Eichhorn Unrecht maessige Buecher Neue Galerie © VG-Bildkunst Bonn 2017 © Mathias Voelzke
Nella Documenta Halle sono esposte alcune delle opere più spettacolari, a cominciare da Qipu Gut, la scultura in lana colorata di Cecilia Vicuna o Fundi, l’installazione del maliano Aboubakar Fofana, dedicata all’utilizzo del colore indaco estratto dalle piante. Infine, un cenno alle opere all’aperto. Non si può non cominciare dal landmark della mostra, The Parthenon of Books dell’argentina Maria Minujin, che occupa la Fridrichsplatz, senza però dimenticare Good Luck, la video installazione di Ben Russell nei sotterranei del Fridericianum, dedicata alla vita dei minatori in Serbia e in Suriname, mentre uno dei lavori più romantici della mostra è Expiration Movement, lo sbuffo di vapore che esce dalla torretta dello stesso Fridericianum, come un messaggio immateriale ma significativo di Daniel Knorr. Altrettanto significativo When We Were Exaling Images di Hiwa K, che fa riferimento alle vite clandestine degli immigrati nel sottosuolo delle metropoli, con un linguaggio diretto ed efficace. Nella stessa logica figura l’opera di Olu Oguibe a Konigsplatz, Das Fremdlinge und Fluchtlinge Monument, l’obelisco nero con incisa una frase sull’accoglienza tratta dal vangelo di San Matteo, che fa riferimento alla forte presenza di extracomunitari nella città di Kassel.
In conclusione una Documenta che rinuncia al facile richiamo della spettacolarizzazione dell’arte per suggerire una riflessione più profonda attraverso la storia degli ultimi due secoli, con una selezione di opere non facili ma incisive nei loro contenuti, diretti e radicali. Ma è davvero necessario guardare indietro per comprendere il presente?
Ludovico Pratesi
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Se in parte condivido la ricca messe di riflessioni dall'altra trovo che questa documenta sia troppo educativa e poco visiva, come sempre qui si fa arte non didattica o altro, giusto realizzare opere che siano anche pensieri e idee ma qui si opera nel campo del visivo, e mi pare che sempre più i tempi siano poco coraggiosi, mancano Opera d'Arte nel senso storico, ma forse sono io che tendo al romanticismo d.o))))