A Dresda, in una sorta di penisola dei musei protesa nell’Elba – dove si raccolgono gli edifici monumentali fedelmente ricostruiti per restituire l’immagine magnifica della Capitale della Sassonia devastata nel ’45 dai bombardamenti tattici degli Alleati, crudeli e indiscriminati – è in via di completamento il restauro/ricostruzione/riallestimento del Residenzschloss, la storica residenza dei re sassoni. Nel suo Kupferstich-Kabinett sono state allestite tre mostre su un comune filo conduttore: la resistenza alla sopraffazione.
La prima esposizione, “Ralf Winkler-A.R.Penck. Welterfahrung und Bildsprache” (Esperienza mondiale e linguaggio visivo) fino al 19 marzo, è dedicata a A.R. Penck, all’anagrafe Ralf Winkler (1939-2017). L’artista tedesco si mascherò anche dietro altri pseudonimi, come Mike Hammer, T.M., Mickey Spilane, Theodor Marx, a.Y. o solo Y, fu persino batterista jazz e lavorò molto con artisti italiani quali Paladino, Chia, De Maria e con il gallerista Lucio Amelio per la sua collezione “Terrae Motus”, eseguendo l’opera Erdbeben in Bierkeller (Terremoto in birreria). Lo Staatlichen Kunstsammlungen Dresden (SKD) e la Städtische Galerie Dresden hanno organizzato, prima dello scadere dell’anno, un omaggio-commemorazione per Penck scomparso nello scorso maggio. Difatti era nato nel 1939 proprio a Dresda, nell’allora Germania Nazista, la cui storia tragicamente rappresenta tutto il peggio dello scorso secolo e le cui tracce hanno segnato la vita e l’opera di Penck e tuttora segnano fortemente la città. Dal 1969 il regime comunista aveva cominciato a sequestrare le opere di quell’irriducibile, geniale pittore, incompatibile con il realismo socialista. Non ne consentì l’ammissione all’Accademia di Dresda né a quella di Berlino est, finché nel 1980, dopo aver sofferto meccanismi sempre più fitti di pressione da parte della Stasi, Penck fu espulso dalla DDR. Questa piccola mostra tuttavia sembra privilegiare la dimensione ludica e dissacrante della produzione di Penck. Nella scelta delle opere di grafica ha preferito alle immagini più sofferte, soprattutto degli anni tedeschi, le figure primitive e i segni arcaici, quei segni che ne fecero un pittore in controtendenza negli anni Sessanta e Settanta dominati dall’astrattismo, e sembra celebrare il precursore, come sostengono in molti, di Keith Haring e Basquiat.
AR Penck, Standing Nude, Still Life and Drawing, Litografia 1979 , 657 x 823 mm (foglio); circa 580 x 710 mm (illustrazione) © VG Bild-Kunst, Bonn 2017, foto: Andreas Diesend
C’è poi “Käthe Kollwitz, in Dresden”, per commemorare i 150 anni dalla nascita di Käthe Kollwitz (1867–1945) la “pittrice degli operai” già celebrata nei musei a lei dedicati a Colonia e Berlino, dal Metropolitan di New York e da British Museum e da Ikon Gallery a Londra. L’opera di Kollwitz è un’esemplare dimostrazione della sperimentazione delle nuove forme di rappresentazione sviluppatisi in età guglielmina intorno ai primi del ‘900 quando la figura femminile di un’artista fortemente critica sul piano sociopolitico era un’eccezione.
La mostra presenta i suoi capolavori di grafica, di cui il museo possiede un enorme patrimonio, uno dei più importanti fra le collezioni pubbliche, che ha cominciato a raccogliere sotto la direzione di Max Lehrs, dal 1898 fino al 1938. Fu infatti il Kupferstich-Kabinett il primo museo a promuovere il lavoro dell’artista con una sistematica politica di acquisizioni. Fu quindi Max Lehrs a contribuire in modo significativo a creare Käthe Kollwitz come artista e l’enorme stima di cui godette a Dresda grazie a Lehrs viene testimoniata da un vivace scambio di lettere.
Kathe Kollwitz, Madri (parte 6 della serie “Guerra”), 1921 al più tardi 1922 xilografia su carta ruvida, giapponese, 340 x 400 mm, 680 x 550 mm Print Room © Collezioni d’arte Dresda
Questo epistolario tra Käthe Kollwitz e il direttore del Kupferstich-Kabinett viene pubblicato per la prima volta, in coincidenza con la mostra. L’esposizione racconta come il museo riuscì a presentare Käthe Kollwitz come uno dei più grandi talenti nel campo dell’arte grafica, alla pari con Otto Dix e George Grosz. Schizzi, incisioni, litografie e i numerosi disegni di tutte le successive fasi della sua produzione dai primi, delicati schizzi, alle successive incisioni espressioniste, definite dai grigi che scurendosi gradualmente virano al nero offrono uno sguardo sui vari piani e i differenti atteggiamenti del suo lavoro, sempre appassionati sia sui temi civili che intorno ai temi emotivi quali morte, guerra, maternità e amore. L’artista tornò spesso, durante la sua vita, sul soggetto del proprio autoritratto per esplorare la trasformazione del suo ruolo di artista, donna e madre. Con la sua arte politicamente impegnata, spesso diffusa nei giornali e sui manifesti, ha cercato di raggiungere un vasto pubblico con successo. Tant’è vero che nel 1933 i nazisti la costrinsero a dimettersi dall’Accademia e le impedirono drasticamente di esporre il suo lavoro.
Muovendosi in un mondo artistico dominato dagli uomini, Kollwitz sviluppò una visione centrata sulle donne e sulla classe operaia. Il talento artistico unico, la sua abilità tecnica e l’intelligenza e soprattutto la sua umanità, si possono vedere nei lavori presentati nella mostra. Era una persona intensamente appassionata, nelle relazioni personali e nella politica, un’artista che ha lavorato duramente nella direzione dell’uguaglianza per le donne in tutte le sfere della vita. Le opere di Käthe Kollwitz, durante tutta la sua lunga esperienza artistica – morì infatti nel 1945 a Moritzburg vicino a Dresda – manifestano la sua enfasi su ciò che era distintivo dell’esperienza delle donne, inclusa la natura particolare e la potenza dell’amore materno. Credeva che l’arte potesse contribuire al bene nella società.
La rappresentazione di queste due anime, civil-politica e protofemminista, utilizza tecniche e segni invece molto tradizionali; nel periodo cruciale per l’evoluzione dell’avanguardia artistica la sua produzione seppur segnata da una rara padronanza della tecnica messa al servizio di una critica serrata alla società nella quale viveva, non sembra tuttavia farsi toccare dai contemporanei sconvolgimenti del mondo dell’arte.
Marlene Dumas, Rejects, dal 1994 serie continue di inchiostri e tecnica mista su carta © Marlene Dumas, Repro: Peter Cox, Eindhoven
La terza mostra, “Marlene Dumas in Dresden. Hope and fear”, organizzata da SKD come a celebrare il completamento della pala d’altare per la Annenkirche a opera dell’artista sudafricana, ha un profondo legame con la precedente e, allestita in sale contigue, permette di scoprire elementi sorprendentemente comuni tra le due artiste mai messe in relazione. Nata a Cape Town nel 1953, Dumas vive e lavora ad Amsterdam da oltre 40 anni ed è una degli artisti contemporanei più significativi. Nei suoi disegni e dipinti – la mostra presenta una selezione di 50 opere su carta – trasforma le esperienze esistenziali, come l’amore, la morte, il potere e la sopraffazione, in immagini vivide. Il suo principale interesse è il ritratto, tema centrale anche nella mostra della Kollwitz, unico soggetto delle tre serie di inchiostri e acquerelli esposte, perché particolarmente emblematiche del suo lavoro. Queste raffigurazioni sono basate su fotografie. L’artista quindi non rappresenta persone ma immagini di persone. I disegni di teste si collocano tra il ritratto e la metafora simbolica, confondendo aggressori e vittime, appartenenza ed esclusione. Dumas espone così la natura arbitraria delle categorie e delle convenzioni come strumenti di discriminazione, che rimandano alle sue stesse esperienze durante l’apartheid in Sud Africa.
Giancarlo Ferulano