Invisibilità e disfunzionalità, parametri di una dimensione che aspira a diventare poetica, in cui arte e scienza si avvicinano fino ad incontrarsi, cimentandosi- contemporaneamente – in quel dialogo a più voci che è “Sistemi di visione / Sistemi di realtà: Loris Cecchini, Giovanni Ozzola”. Curato da Ilaria Mariotti, questo complesso progetto espositivo (fino all’8 maggio) parte da esperienze condivise in cui i due artisti si sono confrontati con realtà produttive del territorio, coinvolgendo icomuni di Pisa e Santa Croce sull’Arnoin collaborazione con il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci (nell’ambito del progetto regionale Cantiere Toscana Contemporanea), galleria Continua di San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana, Associazione Arte Continua, IDS Ingegneria dei Sistemi, Superior S.p.A. e con il contributo di Renato Corti S.p.A.
«Al rigore iniziale della progettazione ho risposto lasciandomi guidare dallo spazio stesso in maniera intuitiva»,spiega Loris Cecchini (Milano 1969, vive e lavora a Berlino). «Il far danzare una forma nello spazio è molto importante per me».
La mostra al Centro Espositivo di Villa Pacchiani di Santa Croce sull’Arno è concepita come una sorta di “indice di materiali” che attraversano vent’anni della sua pratica artistica. La dualità di materiali caldi/freddi si esprime, in particolare, attraverso l’uso delferro, dell’acciaio, del vetro, della resina epossidica,del feltro sintetico, della fibra di nylon, delplexiglas e anche della pelle nell’opera Tavolo parallelo alla Terra, Terra parallela al Tavolo (2016), nata proprio dalla collaborazione tra l’artista e la Superior, azienda leader nella lavorazione di pelli destinate al settore moda/lusso.
«Non avendo mai lavorato con la pelle, ho pensato di partire dall’idea del tavolo-scrittorio, cercando di trasformare il piano di memoria, di scrittura, in una geografia che diventasse anche documentaria della provenienza del materiale stesso. In questo territorio, infatti, il pellame ha una lunga storia di manifattura e anche di coinvolgimento sul piano dell’economia, perché il distretto conciario da secoli impiega interi paesi nella lavorazione esperta di questo materiale. Il risultato è questa sorta di mappa topica di un luogo che, allo stesso tempo, è un tavolo della memoria».
Anche nel titolo il grande tavolo-plastico rivestito in pelle, diviso in otto parti di colori diversi – dall’ocra al marrone – rende omaggio ai tavoli di Mario Merz che Cecchini ricorda di aver visto nel 1990, in occasione della mostra “Mario Merz: terra elevata o la storia del disegno” al Castello di Rivoli.
Dopo anni di sperimentazione nell’ambito di una fotografia digitale che aspirava alla tridimensionalità (l’artista definisce quei lavori “collage fotografici”), seguiti da un lungo lavoro sulla decostruzione e sul paradosso, Loris Cecchini è arrivato a questo indice generale «per motivi interiori e via di un diverso dibattito culturale che si era creato. Ho avuto l’esigenza non più di decostruire, ma di cominciare a ricostruire qualcosa. In questa direzione leggo, ad esempio, tutte le strutture modulari, riferimenti della nostra percezione in ambito scientifico. Partendo, quindi, da presupposti scientifici li ho tradotti in una dimensione poetica, cercando di trasfigurarli portandoli su un altro livello», spiega l’artista.
Da Steelwave (mercurial chorus) a The developed seed (organizing a system that can continously construct itself), alle serie Confining forces e Peeling paints– tra le opere del 2016 – includendo, naturalmente, anche quelle precedenti come la serie Sentimental seismographies (2015), c’è sempre una forte relazione con architettura e spazio. “Episodi di lavoro” – come li definisce Cecchini – che in opere come Wallwave vibration (petit Canticus) (2016) e Wallwave vibration (anatomy of a diagram) (2012) diventano parte integrante del muro stesso. «Si perde il confine dell’oggetto, il suo senso. Anche il termine ‘vibration’ presente nel titolo indica uno stato emotivo dell’architettura che è surreale, perché sembra che nello spazio si manifesti un punto emotivo».L’osservazione della natura è altrettanto importante per lui: i semi o le immagini al microscopio trovano una nuova codificazione nelle forme diagrammatiche per cui Cecchini nutre una dichiarata fascinazione: «È come se quei moduli diventassero una sorta di diagramma tridimensionale che parla, da una parte di ingegneria, e dall’altra di natura, rimanendo quasi in forma astratta con un aspetto fenomenologico». Conclude il percorso espositivo Del riposo incoerente, l’amaca di vetro realizzata a Murano nel 2013,che è – ancora una volta -la dichiarazione di una poetica della sospensione giocata sul paradosso, declinata com’è attraverso le peculiarità di un materiale ambiguo come il vetro.
Forse l’ambiguità non è il tema centrale di Giovanni Ozzola (Firenze 1982, vive e lavora a Santa Cruz de Tenerife), invitato dalla curatrice a dialogare con IDS Ingegneria dei Sistemi, azienda leader nel campo delle tecnologie di rilevamento, ma è innegabilmente presente anche nelle sue opere in mostra presso il Centro Espositivo per le Arti Contemporanee SMS – San Michele degli Scalzi di Pisa.
«Da subito mi ha interessato la condizione di visibile/invisibile legata alla ricerca tecnologica della IDS – afferma Ozzola – Nell’opera nata da questa relazione, Stealth– History – Pathos, I, II, III, IV, le forme realizzate in ferro sono molto semplici. Sembrano dei solidi platonici, ma in realtà sono frutto di studi ipertecnologici in cui vengono analizzati tutti gli angoli di riflessione rispetto al radar e mantengono all’interno della loro forma una carica che lascia percepire lo studio, l’energia impiegata per realizzarle. Ho preso delle forme invisibili e le ho portate alla riflessione della scultura, quindi di oggetti tridimensionali con un corpo e un peso, che occupano uno spazio e coinvolgono lo spettatore nella relazione con lo spazio».
La riflessione va oltre l’aspetto formale, per sollecitare tematiche esistenziali sulla coscienza di sé che ritroviamo anche in altri lavori esposti a Pisa, come le rotte incise nell’ardesia (tra queste Routes ARTIC, 2012; Routes Ibn Battuta, 2013; Routes SUD AMERICA OCEANIA,2013),le campane di Dust Printemps France II (2013), il video Kids on the Boat (2004) e, in particolare.nel trittico 10:35/12:05 (2016), anche questo nato dal dialogo con la ditta pisana. «Ho chiesto all’IDS di registrare con il radar una precisa porzione temporale e spaziale,la Toscana in un venerdì dalle 10,35 alle 12,05 e ho collezionato le rotte di tutti gli aeroplani che hanno viaggiato in un raggio di circa 200 km su questo cielo. Da lì, per sottrazione, ho selezionato solo ed esclusivamente le rotte più particolari, quelle meno tracciate, e le ho riportate sull’alluminio segnandolo, graffiandolo e poi inserendo nel solco l’ottone battuto a martello e poi fresato, in modo che i due materiali si unissero. Qui, a differenza dell’invisibilità delle sculture, c’è l’affermazione del movimento, del passaggio nella tridimensionalità, anzi nelle quattro dimensioni perché c’è anche la fascia temporale che contraddistingue la nostra realtà». Una metafora del viaggio? «No, non esattamente. Semmai sul percorso, perché il viaggio, nella mia esperienza, prevede una meta e una partenza. Il percorso, invece, è qualcosa di infinito».
Il percorso dell’umanità è sintetizzato in Scars (2015), che contiene la traccia delle rotte di tutti gli esploratori, dalla notte dei tempi fino alla prima metà del XX secolo. «La geografia è assente, quindi riusciamo a vedere i continenti solo attraverso la loro assenza, perché quelle rotte sono state tracciate da individui che sono andati verso l’ignoto. Sono cicatrici nel nostro inconscio collettivo. Se ci muoviamo così sicuri su questo pianeta è perché qualcuno ha sfondato le Colonne d’Ercole, quindi è riuscito a fronteggiare le proprie paure personali che sono mortifere e non ci lasciano essere chi siamo».Carte nautiche e campane sono oggetto di grande interesse per l’artista, che da tempo ha cominciato a collezionarle. «Non colleziono carte nautiche che non abbiano lavorato. Possono anche essere molto antiche, ma se non ci sono segni umani non mi interessano. Si segna il carteggio per capire la propria posizione e la propria destinazione. Anche le campane che colleziono hanno lavorato, provengono da navi smantellate o che hanno fatto naufragio, all’inizio ne collezionavo solo di questo tipo. Una delle principali ragioni dell’utilizzo della campane sulla nave è per segnalare la sua presenza nella nebbia. Mi piaceva l’idea che la campana cambia vita, ma continua a suonare sempre la solita nota, anche dopo essere stata sotto il mare».
Manuela De Leonardis
In home page: Loris Ccecchini, Waterbones (shamble humble diagram), 2016 (ph Ela Bialkowska OKNOstudio)
Sopra: Giovanni Ozzola, Stealth– History – Pathos, I, II, III, IV (2016) (ph Ela Bialkowska OKNOstudio)