Si adatta ai muri di un edificio di periferia, sulle lamiere contorte di un treno in disuso, tra le candide pareti di un museo. Si colleziona, si cancella, si distrugge. Non conosce confini, perché li ricopre. Non ha un pubblico specifico o teorie di riferimento, potrebbe accomunare Fluxus e Informale, riunire favelas e grattacieli. La Street Art è un processo in formazione perenne. Si possono interpretare i suoi messaggi o subirne l’impulsività ma, in ogni caso, è impossibile sottrarsi a questo dialogo di colori e superfici, che nasce come gemello scanzonato del Writing e si sviluppa nell’iperlabirinto delle sconfinate possibilità linguistiche del contemporaneo.
Per il movimento artistico più significativo e contraddittorio degli ultimi anni, ancora non si riesce a trovare una definizione univoca. Eppure, un momento di maturazione sembra essere arrivato e gli epigoni, ormai, sono stati “non-ufficialmente” riconosciuti nello statunitense Obey e nell’anglosassone Banksy.
Così, non meraviglia che una sede istituzionale come il Pan – Palazzo delle Arti Napoli – abbia dedicato un’ampia mostra a uno dei padri della Street Art, Shepard Fairey, in arte Obey. Per la monografica, a cura di Massimo Sgroi, organizzata da Password Onlus, con il patrocinio del Consolato degli Stati Uniti d’America a Napoli, sono esposte 90 opere, dallo sticker di André The Giant, di fine anni ‘80, fino alle gigantografie di Obama, passando, un po’ troppo velocemente, per la produzione della prima metà dei ‘90, quella più genuinamente distopica.
Un po’ come ai tempi di Andy Warhol e Joseph Beuys, la cui contrapposizione era più nella suggestione di ipotizzare poderosi blocchi teorici che nell’evidenza dei fatti della storia, i due grandi maestri della Street Art condividono zone di influenza, strumenti, atteggiamenti e concetti. Banksy è lo sfuggente profeta cresciuto all’ombra dell’Union Jack e di Sotheby’s, che viaggia in incognito da Gaza a Los Angeles, tra mockumentary e biografie non proprio autorizzate. Per vedere i suoi stencil, a Napoli, bisogna andare a piazza Gerolomini, dove c’è un’Assunzione della Vergine con pistola. Qualche tempo fa, a piazza del Gesù Nuovo, si poteva ammirare anche una rivisitazione della Beata Ludovica Albertoni, di berniniana memoria, con patatine del McDonald, sopraffatta da una frettolosa mano di pittura.
Di Obey, che a Napoli aveva già esposto nel 2013, in occasione di una personale in un negozio di abbigliamento, si sa tutto. Shepard Fairey è nato nel 1970, in un’agiata famiglia borghese della Carolina del Sud. Terminati gli studi al Rhode Island School of Design, ha iniziato il suo sfolgorante percorso artistico bombardando i muri di Providence con un piccolo adesivo che ritraeva il volto del noto lottatore di wrestling André The Giant, accompagnato da un motto stravagante, diventato subito un modo di dire: André The Giant has a Posse. Era il 1989 e a Napoli – che è stata terra di frontiera del Graffitismo, insieme a Bologna, Roma e Milano – il francese Ernest Pignon-Ernest incollava, nei vicoli del centro storico, i suoi poster, fatti di sottile carta di giornale e raffiguranti opere di Caravaggio e Luca Giordano, mentre Sha One, Polo, Zemi, Kaf, Cyop, Iabo, Eno, fondatori della mitica crew KTM, diffondevano tag per la città.
Il percorso espositivo del PAN si apre proprio con la storica immagine del wrestler che, in nuce, contiene tutti gli elementi della dottrina #Obey: soggetto identificabile, grafica sapientemente costruita, contrasto accattivante tra colori, diffusione virale affidata a canali alternativi. Un’ibridazione di principi artistici, sociologici e comunicativi in anticipo sui tempi, considerando che le tecniche di guerrilla marketing si stavano appena diffondendo, la Street Art era ancora molto vicina alle lettere del Writing e il world wide web esisteva più nella letteratura cyberpunk che nella vita reale. Così, l’esposizione napoletana ripercorre le tappe concettuali della produzione di Fairey, proponendo un itinerario scandito in sale tematiche, dalla critica ai meccanismi del capitalismo e alle strutture del potere, con le serie di opere In lesser God we trust, all’omaggio ai grandi personaggi della musica rap, come Notorious B.I.G. e Tupac.
Molto spazio è stato dato al ciclo dedicato a Barak Obama, «la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello Zio Sam», nella definizione, tanto controversa quanto sintomatica, del critico d’arte Peter Schjeldahl. Si tratta dei poster Hope, esposti per le strade di tutto il mondo, durante la campagna elettorale del 2008, che gli valsero una lettera di ringraziamento firmata dal Presidente e 300 ore di lavori socialmente utili, in seguito alla causa intentata dall’agenzia giornalistica Associated Press, per violazione dei diritti d’autore sull’immagine. Il paragone con Andy Warhol, più volte chiamato in causa da Sgroi, regge, considerando che l’opera è tra le rappresentazioni più rifunzionalizzate, al pari del “Che” Guevara, di Jim Fitzpatrick, e della Marylin pop.
Le opere di Obey sono perfette articolazioni linguistiche, icone dell’ontologia contemporanea che, intervenendo nell’enciclopedia assimilata dal contesto urbano, forzano il sistema della percezione per diventare presenza costante nel paesaggio frammentario del quotidiano. Serigrafie e stencil si estendono su supporti vari, alluminio, compensato, carta da parati, tavole da skate e chitarre elettriche, mentre le linee dell’elemento figurativo, in primi piani di orwelliana memoria, risaltano dal fondo caotico, emergendo con vigore tra pattern intricati e sovrapposizioni segniche. La maniera di Fairey si riallaccia a un’eredità figurativa complessa, che va dal dinamismo dei tratti di El Lissitzky e Aleksandr Rodčenko, con i quali condivide la scelta di ricercare un codice diretto e immediato, fino ai manifesti pubblicitari di Jules Chéret, per l’intenso legame tra scrittura e immagine. Il suo lavoro, dunque, è un dispositivo composito che, pur strizzando l’occhio allo spazio del museo, adattandosi a questo, non rinuncia al modello dialogico della comunicazione urbana, seguendo un ritmo fruitivo serrato, tra simbolo visivo e immediata risposta percettiva.
I termini Street Art e musealizzazione sembrerebbero attivare un processo antinomico, in realtà, questa situazione è frutto di un fraintendimento e ha una giustificazione metodologica. Il movente sotteso alla Street Art non è distruttivo ma creativo, simboli e tecniche sono sviluppati per intricare i momenti della creazione, della ricezione e dell’interpretazione, più che per scardinare il sistema ufficiale dell’arte. L’effimero è materia grezza di tale impulso e, per sua natura, difficilmente categorizzabile. Questo, però, è un dato consequenziale agli strumenti, fondamentale per i concetti di archivio, memoria, documentazione ma poco rilevante per l’analisi storica dell’evoluzione del linguaggio artistico che, come sempre accade, può arricchirsi solo attraverso i prestiti di termini, le impurità dei modi e i tradimenti della sintassi.
Per questo, il prezzo del biglietto, pur indispensabile, considerando la situazione finanziaria precaria del PAN, rappresenta un cortocircuito dottrinale, visto che l’unica, fondamentale regola della Street Art – se rimane tale e non diventa un’altra cosa – è la fruizione libera.
Mario Francesco Simeone
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Quando si museifica la Street Art vuol dire che questo fresco linguaggio oramai è morto, pronto così per essere commercializzato, tutta la sua forza dirompente perde di significato, via come è successo con l'arte povera torinese o certi progetti rivoluzionari oramai insignificanti
Bisogna andare oltre a queste vecchie usanze dei musei se l'arte è per tutti che sia immersa in tutto come la street art