E poi ci troveremo tutti al Roth Bar

di - 22 Novembre 2013
Dieter Roth (1930-1998), eccellente grafico, poeta, collezionista di reperti di scarto della vita quotidiana, accumulatore di materiali anche organici, a favore dell’abolizione di gerarchie tipologiche artistiche, rifiutava il concetto di arte eterna e immutabile e, come molti artisti  negli anni  ’60 e ‘70, sperimentava diversi linguaggi, in linea con il movimento Fluxus, con il quale ha collaborato per la realizzazione di alcune pubblicazioni (Kalenderrolle 63, An Anthology e V TREE). S’intitola “Islands”, isole, l’immaginifica mostra di scena del poliedrico, indefinibile artista, nomade per vocazione nato a Hannover, cresciuto a Basilea e trapiantato in Islanda (da cui prende il nome la ricorrente iconografia dell’isola), che si racconta con cento e più opere, organizzate in isole multisensoriali, incentrate sullo sconfinamento tra Arte e Vita: una celebrazione del flusso metamorfico dell’esistenza.
Per Roth, come per altri colleghi della sua generazione e in particolare amici appartenenti al Nouveau Réalisme, l’opera è il processo di vita stesso e viceversa; un atto performativo che si manifesta in tutti i gesti e i momenti quotidiani. Documenta il suo pensiero vorticosamente creativo la maxi installazione video (attualmente in mostra alla Biennale di Venezia) del suo ultimo anno di vita, 1997-98, intitolata Solo Szenen (Solo Scenes) composta da131 monitor che ripropongono scene della quotidianità dell’artista ripreso in diretta nei diversi studi in Islanda, Germania e Svizzera. Nella semi oscurità dell’Hangar, la sua vita si snoda in un continuum di immagini in ordine cronologico che mostrano l’artista in diversi momenti della sua giornata, mentre lavora, scrive, dorme, mangia e si lava, filmato con una semplice telecamera a inquadratura fissa, da lui installata. L’opera è un assemblaggio di momenti di vissuto personale, un diario visuale in cui si annulla la barriera tra vita e arte, che in parte anticipa il “Grande fratello” televisivo.
Non è facile sintetizzare la sua poliedrica attività artistica che spazia dai lavori grafici alle installazioni, al video, agli ambienti, fino alla sperimentazione di sculture di zucchero (Zuckerturm) e di cioccolato (Selbtstturm) con l’aiuto del figlio Bjorn e attualmente dei nipoti Einar e Oddur Roth, in studio con lui fin da bambini. Per entrare nel vivo della sua rigenerativa visione feticista del mondo, dove “non si butta via  niente” – a partire dalla carta igienica, i sacchetti per il pane, le medicine scadute, gli abiti, escrementi inclusi – fino ad arrivare al cuore dell’effimero dell’esistenza, si consiglia di sbirciare nella catalogazione di quasi un ventennio di vita, nell’opera Flacher Abfall, composta da contenitori che archiviano vecchi involucri di alimentari, ricevute, biglietti, etichette, lettere e altri materiali di scarto, reperti del quotidiano come tracce di vissuto. Ossessiva catalogazione che è il  fil rouge di questa e di tutte le altre opere esposte.
Sappiamo che l’arte, dal ready-made duchampiano in poi, si fa con tutto, ma il concetto di “opera totale”,  teorizzato da Richard Wagner, è stato emblematicamente declinato anche nel Merzbu (1925-35) di Kurt Schwitters (1887-1948), conterraneo di Roth, protagonista del Dadaismo, che con l’istallazione ambientale ante litteram composta da una serie di accumulazioni progressive di oggetti e materiali vari, distrutta in un bombardamento nel 1943, ha introdotto l’opera site-specific praticata dal secondo dopoguerra.
Tornando a Roth, per qualcuno protagonista della Junk art (arte dei rifiuti), spesso ironicamente etichettata con il termine Rot, che in  inglese significa “marciume”, è importante Grosse Tischruine (Large Table Ruin), installazione che nasce dalla trasformazione del tavolo da lavoro dello studio di Stoccarda, composta da una dozzina di tavoli e sedie accatastati gli uni sugli altri, caotica  ma  insieme ordinata stratificazione di materiali di ogni genere. Questo work in progress si modifica ogni volta che viene esposto attraverso l’accumulazione di oggetti diversi, iniziata nel 1978 dall’artista con la collaborazione  del figlio Bjorn e Eggert Einarsson, in bilico tra creazione e decadenza, in cui il materiale di scarto prodotto durante la fase d’installazione viene aggiunto al lavoro che semplifica un processo di perenne trasformazione.
Tra le opere più significative dell’esposizione, non si dimentica The Relatively New Sculture (2013), realizzata appositamente per l’Hangar Bicocca da Bjorn e dai figli  Einard e Oddur Roth, insieme ad alcuni stretti collaboratori: una scenografica impalcatura, accessibile allo spettatore, suddivisa in due piattaforme, che offre una panoramica mozzafiato dall’alto dell’intera mostra e produce rumori  quando un assemblaggio di strumenti musicali  rompono il silenzio dello spazio.
Ancora una volta con quest’opera si valorizza il ruolo fondamentale della famiglia, degli eredi che materializzano il pensiero di Dieter di non interrompere in seguito alla sua scomparsa il flusso creativo avviato con il suo lavoro. Sono importanti le oltre 60 stampe dei Picaddillies, esposte per la prima volta nella loro completezza, considerate tra i progetti più interessanti di Roth. La  serie ideata alla fine degli anni’ 60, si fonda su un innovativo processo di stampa inventato dall’artista tedesco in collaborazione con l’amico e editore Hansjorg Mayer e con Paul Cornwall Jones della Petersburg Press di Londra. Le immagini  utilizzate per le 6 Picadillies, sono una rielaborazione della cartolina della mitica piazza londinese, icona  pop, donata a Dieter da Rita Donagh, la moglie di Richard Hamilton, protagonista dell’Independent group di Londra.
In questo flusso vitale, all’insegna della metamorfica consumazione della vita, nella sua incessante ricerca non poteva mancare il cibo, che come per Daniel Spoerri, incontrato nel 1953, precursore della Eat art (arte da mangiare), assume un ruolo determinate, come il formaggio e la muffa che per Roth sono un materiale artistico pari alla pittura. E all’Hangar scoprirete che al posto delle Torri di Anselm Kiefer, campeggiano altre torri, alte oltre cinquanta metri, composte con micro autoritratti di cioccolato (quattro tonnellate fornite dall’azienda Novi) e multipli di animali in zucchero colorato, utilizzato fuso e stampato in situ, insieme a 35 gnomi di plastica “incubati” in blocchi di cioccolato. L’Hangar trasformato in una anomala fabbrica di cioccolato dalla “bottega” artistica dei Roth, dove si trova anche la cucina, inclusi fornelli e pentole utilizzati nello studio di New York, ripuliti per l’occasione.
Ma i protagonisti qui sono i materiali di origine vegetale e animale che, come il patriarca insegna, sono soggetti a repentini cambiamenti e alla degradazione e che, col passare del tempo, plasmano l’arte nel suo incessante divenire. Fortuna che all’Hangar – laboratorio, teatro interattivo – aleggia un intenso profumo dolciastro di cioccolato fuso, piuttosto che l’odore disgustoso effuso nel Schimmelmuseum, il museo della Muffa, creato da Roth in una vecchia casa di Amburgo, chiuso nel 2004. Infine, tra odori mix di colla, vernice, legno e altre indecifrabili sostanze industriali, “marmellate” di detriti organici prodotti durante i 45 giorni di allestimento della mostra dai Roth, dove anche i pavimenti degli studi in Islanda dell’artista sono stati trasformati in grandi opere informali, la sosta obbligata è all’ Economy Bar (2004-2013): opera di 60 metri quadrati che apre e chiude il percorso espositivo di queste isole happening di matrice dadaista. Dove a servire e a pulire al bancone ci sono i nipoti e gli amici di Roth, aperto al pubblico come una concreta dimostrazione di simbiosi tra arte e vita.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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