È «una mostra dal valore politico», afferma Antonella Berruti della galleria Pinksummer presentando l’iniziativa che vede al lavoro i due gruppi di architetti A12 e i Baukuh. In effetti le idee presentate in questa centralissima e molto attiva struttura genovese dai due team appaiono dirette nel maneggiare una questione delicata quale è la Città della Lanterna. E lo fanno attraverso ipotesi architettonicamente alternative che affrontano sul piano strutturale il suo territorio.
In Pinksummer ci tengono a rimarcare il valore artistico delle opere/ricerche esposte, legandolo all’importanza sociale dei lavori e comprovando di fatto l’esistenza di un binomio sempre più spontaneo tra architettura e arte contemporanea. E se quello stesso binomio porta maliziosamente a tirare in ballo la sua faccia meno positiva, quell’innegabile assimilazione dell’architettura all’arte, che riduce la struttura “museo” a diventare “oggetto da museo”, tra “archistar” e pretenziose costruzioni ipertrofiche, la Berruti prontamente dichiara: «al di là della struttura, l’importante è che ci sia modo di gestire il bel contenitore». Molto politically correct!
Ma affermazioni venate anche da quegli stralci di pragmatismo concettuale che si respira in casa Pinksummer, quanto mai adatto a sposare progetti (in esposizione fino al 2 marzo) dove le scelte puramente estetico-stilistiche hanno lasciato il posto a tanta sostanza. Due ricerche ben distinte che polemizzano a ragion veduta sulla condizione genovese, fattibile e risolutiva quella dei Baukuh, futuribile e disincantata per gli A12. Comune denominatore (e sfida) è la Genova odierna: come è possibile contribuire per migliorarla e come potrebbe essere tra qualche anno.
Ai Baukuh ci si guarda per forza con occhio molto interessato, perché di fatto regalano un innesco perfetto al corto circuito più azzeccato dei nostri tempi, a maggior ragione se relazionato con una città dove continuare a costruire strutture opinabili quanto imponenti pare l’hobby del secolo. Un corto circuito che parte dalla spettacolarizzazione dell’architettura, passa per tutte le superfetazioni architettoniche di cui Genova è campionario emblematico e infine sfocia nella proposta distruttivo-sostitutiva dello studio meneghino: togliere edifici superflui e sostituirli con aree più vivibili.
Evidente il crash che si attiva all’interno del rapporto tra architettura e tessuto urbano, tanto quanto è palese che il progetto Demolire Genova possiede i crismi dell’effettiva e concreta proposta/presa di posizione anti utopistica, dedita a migliorare la città in funzione di chi la vive tutti i giorni. Progetto ben proposto, districato tra grossi pannelli planimetrici che inquadrano una Val Bisagno “prima e dopo la cura” Baukuh e dove emerge lo spaccato di una popolazione che ha bisogno di meno brutture e più spazio fruibile, consapevole di dinamiche interne al mondo immobiliare, perlopiù convinta che architettonicamente parlando qualcosa da cambiare ci sarebbe.
Intrecciati nello stesso spazio, gli A12 si sono dedicati ad un progetto/riflessione in previsione di un futuro non brillante. La loro “città del poco futuro”, marchio che minacciosamente campeggia sui vari pezzi in mostra, è pensata basandosi sulle statistiche, guardando al passato, al presente e proiettandosi di conseguenza in prospettiva. Se di fatto a Genova gli anziani oggi superano per numero i giovani e nel 2050 i sessantacinquenni in Italia saranno più dei venticinquenni, ipotizzare una città adatta alle esigenze della più ampia fetta di popolazione non è certo qualcosa di campato in aria. Caratteristica la metodica freddamente reportagistico-formale attraverso cui gli A12 espongono le statistiche che sostengono il progetto, con brevi testi battuti a macchina su fogli di agenda corredati da relative foto d’epoca.
Dati precisamente registrati, che nell’atto pratico portano alla nascita di collegamenti a rampe tra palazzo e palazzo, immersi tra il realismo concreto e l’azione estetico-metafisica del vistoso colore rosa tracciato sulle immagini in bianco e nero. Soffermarsi sulla parete rivestita dai “dictat” riguardanti le caratteristiche di questa ipotetica città del poco futuro è per certi versi tragicomico e surreale: si scopre che è “economicamente autosufficiente”, così come “luminosa e arieggiata”, incappando poi in affermazioni che lette con l’inconsapevolezza di oggi fanno sorridere (ad esempio “sono vietate le scritte inferiori a corpo 14”), ma che elaborate nell’ottica del plausibile domani assumono un valore molto più serio, pratico, realistico.
Preso atto quindi che socialmente lo sviluppo è destinato a diventare un incontrovertibile inviluppo, quantomeno se non avverranno inversioni di tendenza, sull’offerta culturale e nel contemporaneo, almeno a breve termine, Genova ha possibilità di crescita ulteriore? Secondo Antonella Berruti grandi aspirazioni non ce ne sono, la città “è piccola” e istituzioni come il redivivo museo di Villa Croce sono «piuttosto a misura della città, senza pretesa d’essere, ad esempio, il Guggenheim di Bilbao». In linea, insomma, con la poca esaltazione del Gruppo A12 e con la concretezza dei Baukuh, preferendo alle fantasticherie la piena coscienza di valutare in base alle molte certezze disponibili. In zona Lanterna verso il futuro ci si naviga piuttosto consapevoli. E piuttosto a vista.
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