Los Angeles, la megalopoli californiana su cui svetta l’iconica scritta Hollywood è sempre stata una primaria fonte di ispirazione per Ed Ruscha, che dal nativo Nebraska è arrivato in città, come studente d’arte del prestigioso Cal Art, nell’ormai lontano 1956.
Ruscha ha immortalato i suoi scorci e i suoi anonimi edifici in una serie di fotografie e di dipinti sospesi fra Pop Art, Realismo, Minimalismo e Arte Concettuale.
Con il suo linguaggio pittorico apparentemente semplice e diretto e la sua puntuale indagine fotografica del paesaggio californiano, I grandi boulevards, le montagne e le pompe di benzina, immobili presenza lungo la route 66, catalogate nella famosa e ormai introvabile pubblicazione Twentysix Gasolines Stations del 1962/63, considerata come seminale nella storia dei libri d’arte, Ed Ruscha ha redatto una sorta di cronaca figurata dell’evoluzione della cultura popolare americana creando una diversa estetica visiva che, mischiando il classico con il pop, ha dato vita ad una nuova perfetta e fredda eleganza formale con immagini solitarie e totemiche svettanti nel vuoto di uno spazio apparentemente infinito.
L’industria cinematografica e l’arte contemporanea ad Hollywood non sono mai andate troppo d’accordo e in fondo i due mondi si sono sempre poco fusi fra loro, soprattutto negli anni ‘50, ‘60 e ‘70, ma Ruscha fin da subito ha subito il fascino degli studios, cominciando ad utilizzare per i suoi lavori le immagini iconiche del mondo del cinema.
La montagna, immortalata nella serie delle Montagne, è infatti quella che appare nel logo della Paramount Pictures, e le grandi tele rettangolari usate dall’artista per i suoi lavori ricordano come forma e dimensioni il “silver screen”, lo schermo cinematografico. Le grandi scritte che campeggiano nei suoi word paintings definiti dall’artista “anonimi scenari per il teatro delle parole” sono sempre pungenti e incredibilmente disturbanti nonostante la loro apparente neutralità grafica, fungendo così da dispositivo fra il linguaggio e le immagini in una sorta di commistione fra indagine filosofica e linguaggio pubblicitario.
Incredibilmente vitale e creativo nonostante i suoi 77 anni splendidamente portati, Ed Ruscha presenta una serie di nuovi lavori nell’ovale della Gagosian Gallery di Roma in una mostra dal semplice titolo “ED RUSCHA: Paintings”. Riprendendo il tema del declino del paesaggio americano cominciato con la serie Course of Empire del 2005, presentato alla Biennale di Venezia di quell’anno, e continuato nel 2011 con la serie Psyco Spaghetti Westerns in cui il paesaggio è ridotto alla rappresentazione, pittoricamente grandiosa e quasi attraente, del rifiuto e dello scarto rappresentati come simboli di una società consumistica condannata al declino sia fisico che morale. Le tele sono sempre grandi e orizzontali e ognuna rappresenta un’ulteriore e più profonda meditazione sulla malinconia della rappresentazione del rifiuto che diventa adesso seducente come non mai. In Bliss Bucket la tela sembra idealmente divisa in due con in primo piano l’immagine di un materasso e di una coperta abbandonati e disfatti, un tipico esempio di scenario metropolitano post crisi economica, mentre la parte superiore dell’opera è occupata da un pentagramma che sembra schiacciato contro il bordo superiore della tela in modo da conferire profondità visiva all’opera, ma fungendo allo stesso tempo da simbolico contrappunto per l’immagine in uno stridente e affascinate cortocircuito fra significato e significante.
Quest’operazione di pura matrice surrealista viene enfatizzata in queste opere non solo dalla grandezza della tela ma, soprattutto, da quel ricco background di cultura pop americana che impregna e vivifica tutto il suo lavoro che mai, neanche per un momento, è apparso appannato, stanco o ripetitivo. Gators è un’altra grande tela in cui sembrano fluttuare dei frammenti di pneumatici che incredibilmente ricordano più la levità della danza che la pesantezza della morte, Inner-City Make Scream e Study for Hydraulic Muscles, Pneumatic Smiles sono i titoli di altre due opere più piccole in cui quei frammenti, eleganti come una pelle di serpente, si stagliano sinuosi come nastri sugli sfondi sfumati di rosso e verde. Desolazione e morte, oggetti stremati dall’uso, esplosi, gettati negli angoli delle strade, discariche desolate dipinte con i colori dei sogni e parole apparentemente semplici che per vie tortuose si insinuano dentro di noi stabilendo nuove connessioni mentali, può la fine di qualcosa essere piena di bellezza? Prima di Ed Ruscha credevo di no.
Paola Ugolini