La proposta al Mart di una mostra dedicata a El Lissitzky, curata da Oliva María Rubio e coprodotta insieme a importanti istituzioni spagnole, si inserisce con puntualità in un crescente bisogno di comprendere meglio la produzione artistica, non solo contemporanea, di area esteuropea. La caduta del muro di Berlino evidentemente ha bisogno di più tempo affinché le polveri si depositino, e una mostra come quella a Rovereto evidenzia come lo spazio dell’immaginario visivo mantenga connessioni profonde con i diversi contesti nei quali sono maturate determinate soluzioni artistiche.
Questo vale anche per un autore così profondamente innovativo come El Lissitzky, attraversato da narrazioni ‘locali’ pur se emancipatosi da esse sul piano del rinnovamento formale dei linguaggi artistici. Rispetto alle narrazioni ‘locali’ vi sono due aspetti, due momenti, di cui le opere di El Lissitzky ci parlano: l’uno è molto noto, l’altro meno. Quest’ultimo viene ripercorso, in un attento testo in catalogo, da Valery Dymshits, e riguarda le pubblicazioni per l’infanzia di EL basate sulla reinterpretazione di note fiabe in yiddish, nonché il suo impegno per la rinascita culturale ebraica, sotto l’influenza dell’ attività dei nuovi gruppi artistici fra il 1910 e il 1920. È il periodo di Vitebsk contrassegnato dall’insegnamento e dal lavoro di illustrazione che diversi autori (Margolin, Yve-Alain Bois) ascrivono all’influenza di Chagall sul giovane artista, ma che in realtà si presenta più complesso.
Questo periodo si chiude intorno al 1920, anche per l’evidente cesura formale operata in questi anni. La seconda narrazione ‘locale’ è quella che fa di El Lissitzky uno dei testimoni per eccellenza delle grandi trasformazioni in atto nella Russia postleninista; l’autore la cui produzione, in particolare quella degli anni ’30, ha imbarazzato non poco per la spiccata, e apparentemente acritica, propaganda dello stalinismo. Insomma, il curatore di diversi numeri, graficamente bellissimi, della rivista URSS in costruzione sembrava non rendersi conto del costo umano immenso richiesto per la forzata e celere trasformazione della Russia da paese agricolo a potenza industriale e bellica. In mezzo fra queste due narrazioni ‘locali’ (quella ebraica, quella stalinista) vi è la produzione di uno straordinario sperimentatore, una delle figure più innovative dei linguaggi formali del suo tempo, dalla pittura alla tipografia, dalla fotografia all’organizzazione di complessi display espositivi. Ed è di questa complessità formale che prova a rendere conto l’esposizione di Rovereto.
Eliezer (Lazar) Markovic Lisickij, nasce nella regione di Smolensk nel 1890 da madre ebrea ortodossa, padre libero pensatore e poliglotta. Studia inizialmente arte a Vitebsk, dove tornerà a lavorare anni dopo chiamato da Chagall e dove collaborerà con Malevic. Fallito l’ingresso all’ Accademia di Belle Arti di Pietroburgo, si trasferisce a Darmstadt, laureandosi in Ingegneria dell’architettura nel 1914; una seconda laurea in Architettura e Ingegneria la conseguirà nel 1918 a Mosca. La formazione tecnica e la costante relazione con l’area tedesca contraddistingueranno il decennio creativamente più intenso di EL, gli anni Venti, periodo che rappresenta a livello europeo la predisposizione di molteplici sentieri, poi interrotti dalla salita al potere dei totalitarismi. Vi è, come oramai da più parti viene riconosciuto, un modernismo interrotto, contraddistinto da ipotesi di rinnovamento della società e dei linguaggi artistici, che almeno per una manciata di anni sono sembrate compenetrarsi positivamente. È a questo clima e alla costante relazione con altri protagonisti delle avanguardie – Theo van Doesburg, Le Corbusier, Kurt Schwitters, Hans Arp, Moholy-Nagy, oltre che ai continui rapporti con i colleghi russi – che vanno riportate quelle soluzioni indicate con il neologismo PROUN (Progetto per l’affermazione del nuovo). Definito da EL stesso una stazione intermedia fra la pittura e l’architettura, il proun deriva da studi di volumetrie e planimetrie che si emancipano da ogni funzione, verso una visione dello spazio fatta di equilibri percettivi, di compenetrazioni fra volumi e superfici che sembrano librarsi nel vuoto: una sorta di architettura sospesa ben lontana dalle urgenze di propaganda ideologica di quegli anni.
Qualcosa riguarda piuttosto la dimensione spaziotemporale “della nuova configurazione”, come la definisce l’artista. In alcuni dei testi più intensi di EL risalenti a questo periodo (Proun, pubblicato nel 1922 su De Stijl, e soprattutto A. e pangeometria pubblicato in Europa-Almanach nel 1925), è difficile trovarvi esplicite connessioni con una qualsivoglia ideologia politicamente riconoscibile. «Il proun comincia dalla superficie, procede verso la costruzione di modelli spaziali e quindi verso la costruzione di tutti gli oggetti della vita comune. In questo modo il proun oltrepassa il dipinto e il suo artista da una parte, e dall’altra la macchina e l’ingegnere, e cammina verso la costruzione dello spazio, lo articola attraverso gli elementi di tutte le dimensioni e costruisce una nuova multilaterale, ma organica forma della nostra natura» (Proun, 1922). Quest’ultima affermazione chiarisce la particolare sintesi che si veniva tentando fra costruzione e generazione. Come se l’agire compositivo dell’uomo (non più solo artista e non più solo ingegnere), attingesse alla dimensione energetica del materiale dandone forma, trasformando il “vuoto, il caos, l’innaturale” in una spazialità intesa come “ordine, determinatezza, configurazione”.
Non è un caso che il ‘dadaista’ Schwitters, e il ‘costruttivista’ EL si dessero appuntamento sul numero 8/9 della rivista Merz, proponendo in copertina, come una sorta di manifesto, l’etimologia della parola latina Natura derivata da Nasci. Del periodo dei proun in mostra a Rovereto vi è la bellissima serie di litografie della Cartella Kestner, editata nel 1922 grazie alla collaborazione di Sophie Küppers, che sarebbe diventata da allora la compagna insostituibile negli anni di una produzione senza soste, nonostante la diagnosticata tubercolosi a cui EL avrebbe ceduto nel 1941 e che lo costrinse a lunghi soggiorni in sanatori svizzeri e russi. La Küppers era la direttrice dell’associazione culturale Kestner della quale era membro anche Alexander Dorner, a sua volta direttore del Provinzialmuseum di Hannover. Grazie a Dorner, EL poté realizzare le sue configurazioni spaziali creando degli ambienti espositivi che rimangono, pur nelle loro contenute dimensioni, degli snodi fondamentali della storia della creazione di spazi per l’arte.
Di ben altre dimensioni e impegno sarebbero stati i grandi allestimenti commissionati all’artista dal governo sovietico nel biennio 1928/30 per magnificare in Europa le sorti della rivoluzione. Ma è pur vero che, per quanto ideologiche, si tratta di originalissime soluzioni espositive, dove quella particolare connessione fra parola e immagine dai volumetti di illustrazione ebraici, dopo aver attraversato le stazioni intermedie della grafica (Storia dei due quadrati), della tipografia (con la produzione di bellissimi libri fra cui vanno almeno nominati Per la voce con poesie di Majakovskij, e il catalogo per la Mostra Internazionale della stampa), della fotografia e del fotomontaggio, sembra effettivamente approdare ad un nuovo Gesamtkunstwerk, all’opera d’arte totale. Lo spazio espositivo fieristico è forse il luogo nel quale EL può concretamente dar forma alle sue intuizioni dei proun, forse più ancora che nelle sue proposte architettoniche di affascinanti, ma non realizzati grattacieli orizzontali, sospesi su alti piloni: gli Appendinuvole (Wolkenbügel), esiti di una utopia che ha tentato in ogni modo, dal libro alla sedia al grattacielo, di diventar concreta.