Vale a dire?
Per esempio la supremazia culturale delle gallerie private, che supportano importanti produzioni, quanto le istituzioni regionali, che hanno bisogno di mostrare la loro massima urgenza nell’aver a che fare con la forza generatrice di artisti più giovani. Arrivando da diversi contesti, eravamo interessati ad analizzare strutture specifiche, nelle quali fosse possibile portare avanti una ricerca sull’arte e su come quest’attività potesse influire sulla produzione. Alcune di queste iniziative funzionano in maniera davvero ambiziosa e sono in grado di differenziare i progetti e la loro offerta viva; offerta rivolta a pubblici che, invece, mantengono una certa mancanza d’interesse e supporto. Progetti come quelli della Fondazione Spinola Banna e della Fondazione Antonio Ratti, che invitano artisti importanti quali Peter Friedl e Yona Friedman, diventando un ambiente dove il cammino di ricerca sulle proprie capacità artistiche può avere luogo.
Quale caratteristica inconfondibile segna la vostra collettiva?
Eppur si muove mostra il lavoro di molti artisti che attivamente s’impegnano a trattare e a venire a patti con il periodo successivo a importanti avvenimenti storici e con il vuoto apparente contenuto nei suoi riflessi quotidiani. Cosa fa sì che la nostra generazione guardi al passato? Come lo fa? In un certo senso, sembra che il presente evocato sia riscontrabile in diverse pratiche artistiche, e che questo fatto sviluppi diverse attitudini. Esistono infatti peculiarità singolari rispetto a questo tema, che vanno dalla giustapposizione di diversi piani temporali alla discontinuità, alle ricostruzioni. Citando Benjamin, c’era un modo solo per lavorare: tanto con differenti approcci artistici quanto attraverso la nostra diversa esperienza personale, modalità che ha permesso la raccolta di diverso materiale di discussione. Questo ci ha dato l’opportunità di fare riferimento a molte simultaneità temporali.
Nella pratica, come si struttura la mostra?
La mostra è suddivisa in due parti: Eppur si muove a Guarene, mentre l’altro evento si chiamerà Danger to fall in the Sea, sotto forma di libro, e verrà pubblicato subito dopo il vernissage. A entrambe le parti abbiamo dato un diverso significato. Nella prima, i diversi artisti selezionati avranno a che fare con la storia come modalità inerente alle loro pratiche artistiche. Questa modalità non dev’essere intesa come una generalizzazione tematica, ma come una ricerca attraverso la quale definire il presente e un possibile futuro. In questa parte, per esempio, Emanuele Becheri incorpora la storia nel proprio progetto attraverso l’idea profonda che lo costituisce; mentre le installazioni di Davide Savoiani sono cariche di archetipi culturali citati nuovamente, assimilati e sovraesposti attraverso alcuni rituali performativi. Altri lavori più sottili, come gli interventi Elisa Strinna su cent’anni di registrazioni sismografiche, serviranno in futuro come basi per composizioni musicali, attraverso variabili che rileggono il presente e ridefiniscono il passato oltre il suo stesso vuoto. In questa mostra, i contenuti coincidono con i lavori presenti, senza l’aggiunta di ulteriori livelli interpretativi, di modo che la relazione dei progetti con l’adesso si fondi in un’unica pratica artistica. Per quanto riguarda il libro, invece, stiamo sviluppando un approccio curatoriale per lavorare all’interno di un formato di stampa che visivamente ci permetta di offrire narrazioni su più piani.
Quali sono stati i criteri di selezione degli artisti?
Una delle cose più difficili di questo periodo di residenza è stato l’obbligo di lavorare solamente con artisti italiani. Come risposta a questo punto fermo abbiamo deciso di non basare la nostra mostra su uno specifico modus Italiae, ma abbiamo lavorato più liberamente sui temi che ci sono parsi cruciali per accedere a una pratica artistica internazionale e a terreni di discussione globali. In un certo senso, la questione dei criteri di scelta si è risolta attraverso la definizione del concetto di mostra, di esposizione, e sulle modalità di lavoro che ci hanno portato a essa. Non ci siamo focalizzati solamente su una generazione o su una sua specificità. Il modo in cui abbiamo viaggiato ci ha permesso di osservare variegate realtà culturali, introdotte ogni volta da persone differenti e differentemente attive in quei contesti. Ovviamente il nostro lavoro su questo terreno ha avuto bisogno di momenti di pre-selezione, ma organicamente la mostra si è affinata proprio nel momento in cui i nostri interessi hanno preso forma. Tutto questo pensiero ha portato alla scelta degli artisti con i quali abbiamo lavorato per Eppur si muove, artisti che grazie alle loro pratiche si sono ritirati in una sorta di storicismo messianico.
Oggi, per voi, cosa significa essere giovani curatori? E come promuovere nuove espressioni visive?
Inti Guerrero: Allo stesso tempo, il nuovo e il giovane possono essere una coppia pericolosa, se posta in relazione con la pratica artistica. ‘Giovane’ sembra essere un termine troppo usurato e demagogico, mentre ‘nuovo’ può essere scambiato erroneamente come un avanzamento della storia. Ma forse c’è una parola in questione ancora più complicata, che è il verbo ‘promuovere’. Io per primo disprezzo l’idea che, neanche fossero inviolabili mucche sacre, gli artisti vadano venerati, promuovendone a tutti i costi il lavoro in qualità di curatori. La principale ragione che sottostà a questa posizione è che io per primo concepisco la pratica curatoriale come una pratica creativa, che sovverte l’ideale canonico di autonomia dell’opera d’arte. Sono convinto, infatti, che le mostre siano sempre coinvolte politicamente, non perché abbiano o non abbiano a che fare direttamente con la politica, ma perché diventano vere e proprie prese di posizione. La proliferazione dell’espressione ‘giovani artisti’ e la sua rapida legittimazione istituzionale, della quale io deliberatamente o meno sono partecipe, attualmente non mi interessa. Amo molto di più, per quanto riguarda la ricerca e la rivisitazione dei movimenti d’avanguardia, riscoprire artisti che non erano stati messi in luce né attraverso i canoni delle loro narrazioni artistiche di riferimento né a causa dell’egemonia europea e americana della storia dell’arte moderna. In questo preciso momento, per esempio, sono alla ricerca delle performance di strada dell’artista brasiliano Flavio de Carvalho, lavori che ha ideato e creato nella prima metà del XX secolo. La mia è una ricerca che prevederà una mostra in grado di rievocare lo spirito trasgressivo di Cavalho in relazione alle altre pratiche artistiche. Insomma, lasciamo che queste sperimentazioni siano più vecchie e che le nuove pratiche, più giovani, non sembrino poi così tanto nuove!
Pieternel Vermoortel: È interessante capire cosa s’intende per ‘giovane curatore’. Forse significa che non possiamo veramente più esser liberi di pensare in termini di avanguardia? Significa che ci stiamo ripetendo? Probabilmente è così, e forse questa è la parte interessante dell’essere ‘giovani curatori’. L’attitudine, la caratteristica della parola ‘giovane’ dovrebbe essere la sola cosa che fa la differenza e dovrebbe definirsi man mano che lavoro con gli artisti, com’è avvenuto durante la mia esperienza di curatore per FormContent, uno spazio per progetti di curatela a Londra. Anche il termine ‘promuovere’ può essere difficile da esprimere completamente. Sì, è possibile stabilire una relazione duratura con molti artisti, rapporto che magari genererà, un giorno, una linea di discussione coesa e che sarà degna di trovare una propria collocazione. Ma promuovere gli artisti o una specifica espressione artistica sembra, in questo contesto, più legato all’idea di reazione, termine che non è ancora stato considerato a dovere o che spesso si riferisce all’idea di rappresentazione.
Julia Kläring: Essere artista e curatrice allo stesso tempo mi permette di lavorare a un progetto che riesco a scorgere e a sentire con maggior profondità. I contesti e i contenuti possono essere molto differenti, ma devono seriamente essere correlati a ogni rispettivo interesse. Come l’espressione artistica, così il concetto di curatela è certamente da considerare attraverso il cambio generazionale, perché riguarda il lento ri-cambio di necessità. Ma focalizzare troppo questo concetto sul termine ‘giovane’ comporta il pericolo di addossarsi una sorta d’immagine ideologica. L’essere giovane era uno status storicamente e socialmente concepito e riconosciuto nell’Ottocento. L’imperativo di oggi, a essere giovani, concerne la costante idea che le cose più nuove comportino il pensare attraverso relazioni di potere. Credo che potrebbe essere più interessante guardare al numero di artisti e curatori che si stanno interrogando sul significato di scrivere la storia, avendo a che fare direttamente con le relative fonti storiche.
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a cura di ginevra bria
*foto in alto: Ra di Martino – August 2008 – still da film 16mm – courtesy l’artista & Monitor Gallery, Roma
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ma per favore? becheri? questa è l'arte italiana? SMETTETELA, BASTA, NON SE NE PUO' PIU'
Ricordo un bellissimo musical fatto da Marinella Senatore e prodotto dalla Galleri Civica di Trento, ma Ra di Martino l'ha copiata?
Credo che questa intervista sia il simbolo della trasformazione (ormai definitiva) del curatore in regista-artista. Gli "artisti"selezionati propongono la stessa sensibilità, in una dinamica dove la paternità di ogni artista ripetto la sua opera è del tutto indifferente. Quello che emerge sono questi tre bravi artisti-curatori e la temperatura/atmosfera della mostra.