È certamente una mostra che vale la pena vedere “Georg Baselitz. Gli eroi” allestita a Roma, in Palazzo delle Esposizioni, fino al 18 giugno 2017. Dopo una Quadriennale, diciamolo pure, non al meglio delle sue potenzialità, la grande sala colonnata torna a respirare, riacquisendo quella godibilità visiva che l’affastellamento di opere e l’accentuata frammentazione degli spazi avevano compromesso.
Qualcuno potrebbe obiettare che con un artista del calibro di Baselitz (Deutschbaselitz, Sassonia, 1938) è facile imbastire una buona mostra. Ma il grande nome in tutto questo non c’entra o, meglio, c’entra poco. A decretare il successo della rassegna, infatti, è sì la qualità intrinseca delle opere, tutte notevoli ma non imprevedibili per quanti conoscono il lavoro dell’artista tedesco, ma è l’allestimento a fare la differenza, semplice e arioso, che alla ridondante complessità dello spazio dominato dal giallo-bruno delle poderose colonne centrali contrappone la regolare sequenzialità delle opere, ben ripartite in microsezioni tematiche e tecniche, tra oli e disegni.
Ad introdurre il percorso è un’ampia – e per niente pedante – sezione biografica in cui è tracciata, anche attraverso documenti e testimonianze, la vita dell’artista, dalla formazione iniziata all’Accademia di Berlino est (da cui è espulso per “immaturità socio-politica”) e compiuta all’Accademia di Berlino ovest, emozionandosi in solitaria di fronte alle opere di Jackson Pollock e Philip Guston (l’informale era in quegli anni il linguaggio contrapposto dall’Occidente al realismo sociale sovietico) e leggendo Joyce, Kafka, Musil. Ma la lettura prediletta dell’artista sul crinale degli anni Cinquanta è “Il placido Don” di Michail Aleksandrovič Šolochov, premio Nobel per la Letteratura nel 1965. La guerra civile cosacca trattata dallo scrittore russo lo spinge a rispecchiarsi nel protagonista, Grigorij Melechov, e a riflettere sul suo isolamento, visto come condizione elitaria, mitica, autenticamente eroica. Per Baselitz sono anni di frenetica ricerca interiore. Legge, studia e viaggia molto, tra Kassel, Amsterdam e Parigi con il solo scopo di ricercare la sua strada, quella di una pittura libera, energica ed espressiva, impegnata e tragica.
«Ho sempre trovato il surrealismo affascinante – ha dichiarato molto più tardi l’artista – perché trattava liberamente quello che vedevi e quello che potevi immaginare vedendo. Più o meno in quest’area si collocano le mie figure letterarie degli eroi e dei nuovi tipi… vengono dalla letteratura, e sono dotati di tutti gli attributi che ritenevo importanti per ciò che volevo esprimere. È per questo che, volendo semplificare, li ho descritti come rappresentazioni dei mestieri del Settecento, del Seicento, del Cinquecento… Erano raffigurati al centro del dipinto. Avevano i loro attributi e si vedeva ciò che erano». Nascono tra il 1965 e il 1966, sotto mentite spoglie artistico-letterarie, i suoi eroi, esposti per la prima volta nel 1973 alla Galerie Springer di Berlino ed oggi protagonisti della mostra romana; uomini seduti o in piedi, nerboruti eppure dolenti, con mani più grandi dei volti e occhi spesso rivolti al cielo, quasi in attesa di una grazia. Impugnano attrezzi o bandiere rosse e non di rado hanno un’espressione estatica e speranzosa, ma il loro corpo, sempre pesante e stanco, li inchioda alla terra, in un tragico ed indissolubile rapporto di sofferenza.
La pennellata è tremendamente energica, si veste di terra e di sangue, assecondando una necessità espressiva che si rivela fin da subito impellente e furibonda. Lo si percepisce fin dalla prima e più datata opera in mostra, Feld del 1962, in prestito dallo Städel Museum di Francoforte, in cui già si percepisce la tendenza trasfigurativa dell’artista volta a modificare in chiave espressiva la realtà ma mai ad abbandonarla. Due nudi distesi su un campo verde appaiono deformati, sgraziati, in pose a tratti erotiche. La visione accidentale e ravvicinata e il contrasto tra il rosa dei corpi e il verde scuro della vegetazione accrescono il disagio della visione. Anche nel disegno (e quindi nell’incisione), rappresentato in tre belle e contenute sezioni, il tratto è vorticoso, continuamente spezzato, e la figura è dolente.
Gli Eroi di Baselitz sono personaggi drammaticamente sospesi tra aggressione e malinconia, tra gesto eroico e trepidazione. In alcuni dipinti del 1966 l’uomo appare moribondo, addossato ad un albero, mentre in altri è definitivamente scomparso. Di lui restano sull’albero le tracce di sangue e i rami spezzati, ultime testimonianze di una tragedia ormai compiuta. Nella sala frontale una grande svastica e figure vagamente hitleriane eseguite tra il 2007 e il 2008 compongono il ciclo Remix, reinterpretando con linguaggio attuale i drammatici dipinti degli anni Sessanta. Nelle ultime sezioni, infine, il corpo è capovolto e fratturato, è divenuto un tutt’uno con il tronco. L’eroe è definitivamente martoriato e diviso. Il dramma è ormai totale.
Carmelo Cipriani