Lo stockage (stoccaggio) è un luogo dove gli oggetti vengono accumulati, collocati per essere a disposizione delle persone e destinati a rimanere nel luogo per un periodo limitato di tempo. Lo spazio, gli oggetti e la considerazione del tempo come elemento transitorio sono alcuni dei concetti-chiave per entrare nei lavori di John M. Armleder presentati nella mostra personale “Stockage” presso l’Istituto Svizzero di Roma, e aperta al pubblico fino al 2 luglio.
Innanzitutto il “luogo di stoccaggio” gioca un ruolo fondamentale nella disposizione dei lavori concepita dall’artista come azione rivolta a saturare gli ambienti con opere-oggetto, secondo un criterio di “sproporzione” opera-spazio. Infatti i raffinati saloni di Villa Maraini, notevoli esemplari di uno stile neo-rinascimentale nel trionfo dei marmi e degli stucchi, diventano contenitore e parametro del processo del fare e del pensare l’arte di John Armleder.
Così le grandi pitture in nero e bronzo collocate su pareti volutamente limitate e trattate con il colore dall’artista saturano lo spazio allo stesso modo in cui, per contrasto, il gruppo di piccoli specchi rettangolari Mind Breath I si perde nella superficie più ampia di una parete intonacata di bianco. C’è allo stesso tempo un rispetto della destinazione d’uso originaria delle sale: la sala della musica ospita i due tromboni appesi a parete come fossero delle pitture o l’opera Mother, esempio di Furniture sculpture, asseconda il flusso degli elementi pittorici naturalmente, come avviene nelle venature dei marmi degli architravi, delle porte e delle colonne.
Il fare arte come processo in divenire e come atteggiamento coincidente con la vita appartiene al mondo di Armleder sin dalla sua adesione al movimento Fluxus. Le Furniture sculpture, le pitture, gli oggetti semplici e di design sono concepiti dall’artista come elementi pittorici e occasioni per mettere in scena il gioco del rapporto arte-vita.
Ma c’è di più: la connessione tra il processo della vita e quello artistico impone una lettura dei lavori di Armleder attenta e leggera allo stesso tempo. Ecco perché abbiamo deciso di chiedere spiegazioni al curatore della mostra Samuel Gross, head curator dell’Istituto Svizzero di Roma.
Nel lavoro di John M Armleder, e in questa mostra in particolare, si evince uno sguardo particolare dell’artista nei confronti dello spazio, un pensiero capace di ripensare alla fruizione delle opere nel luogo in maniera diversa. Esiste una connessione tra questo atteggiamento e le vicende di Armleder?
«In questa mostra “Stockage” si può cogliere molto del processo artistico di John. È una mostra pensata per la saturazione dello spazio in una architettura che racconta un problema di dimensione dovuto alla grandiosità dello stile limitato nella dimensione, poiché pensato per la misura privata di un singolo uomo. Paradossalmente la vita di John è segnata da una concezione di luogo come spazio da condividere. Egli è infatti figlio di una famiglia che ha posseduto uno degli alberghi più prestigiosi della Svizzera. Non stiamo parlando delle catene di alberghi molto diffuse oggi, ma di quelle strutture di lusso a gestione famigliare utilizzate dai proprietari come casa: generando una vita a metà tra il pubblico e il privato. Sin dall’infanzia non ha mai posseduto un luogo privato, ma solo stanze da condividere con il pubblico ogni volta diverso e vissute dunque nel segno dell’accoglienza. Ha trascorso la sua vita in luogo dove tutti erano in vacanza e per poco tempo. La questione del tempo e della sua transitorietà è infatti un tema ricorrente nei lavori di John, come la pittura “memento mori” presente in mostra».
La pittura “memento mori”, così come in generale questo suo modo di concepire lo spazio e anche l’approccio ludico di molti lavori invitano in un certo senso a immaginare di esserci per poco tempo, ma di poter esserci per essere insieme. Esiste in questo senso una concezione del tempo come spazio da condividere?
«Questo si vede molto nella vita di John: ha viaggiato molto e lo fa da artista muovendosi e occupando gli spazi. E lo fa con il lavoro. Le sue opere sono oggetti pensati per essere di passaggio, a lui non interessa l’eternità. Lo stockage è infatti un luogo dove gli oggetti sono transitori, una sorta di mercatino».
A proposito del viaggio, mi domandavo l’importanza del viaggio in John Armleder e la sua concezione del viaggio stesso: nel film del gruppo Ecart (proiettato al Cinema Trevi di Roma in occasione dell’opening) in qualche modo lui rappresenta un viaggio nella sua città natale attraverso il cinema?
«Sì, lui ha viaggiato molto in America e anche in Italia e qui ha anche coltivato un’amicizia con Maurizio Nannucci. E continua a viaggiare in occasione delle mostre dove sono presentati dei suoi lavori proprio perché il suo punto di vista artistico è di stare insieme. Nel film John stava lavorando con il gruppo Ecart di Ginevra con il quale aveva deciso di girare un film di 24 ore riprendendo l’amico Claude Rychner davanti a tutti i cinema della città. Allora si viveva un’epoca nella quale le informazioni passano attraverso i libri e le lettere, e il lavoro del cinema era un modo anche per essere presenti nella città. Ginevra era un luogo decentrato rispetto ad altre aree (un po’ come la presenza di Nannucci a Firenze) e il suo lavoro si sviluppava con un gruppo di compagni di strada. Il gioco del film è l’impressione di vedere un montaggio costruito all’indietro, invece si tratta di un atteggiamento voluto che percorre gli spazi a ritroso».
Ecco! Ci ero cascata nel pensare che fosse montato all’indietro. Era un lavoro di squadra nei primi anni di ricerca a Ginevra per John?
«Sì, e in questa riflessione centra anche un po’ lo sport del canottaggio che John esercitava con gli amici. Uno sport nel quale bisogna coordinarsi e mantenere dei tempi e dei pensieri fluidi. Una relazione quasi metafisica con le persone».
Circa la definizione “Furniture sculptures”: sono oggetti e occasioni per ripensare agli oggetti nello spazio?
«Armleder ha iniziato a fare le Furniture sculpture in carcere, un periodo passato in cella a causa del rifiuto del servizio militare. Ma il suo non è mai un atteggiamento politico, il suo lavoro non c’entra con la politica in questo senso. C’entra con la vita perciò in quella occasione inizia a pensare agli oggetti in quel preciso spazio».
Anche la parola gioco ricorre molto. Possiamo parlare di ironia?
«Lui gioca molto, ma parlare di ironia non è proprio corretto. L’ironia implica in qualche modo di conoscere la verità e ridere degli altri che non la conoscono. John invece gioca con la gioia dello stare insieme. E la cosa interessante dell’arte è proprio questa! C’è una coincidenza con la vita e l’arte».
Giuliana Benassi