Me ne sono venuto via dalla mostra di Danh Vo, visitata un paio di volte a distanza di tempo, guardando la griglia ordinata dei masegni, le pietre che pavimentano Venezia. Ogni tanto nell’intersezione fra pietra e pietra un resto di sigaretta, un paio di petali caduti del giardino accanto alla strada, una vaga impronta di gomma masticata. Anche la luce giocava un suo ruolo, dato il cielo di nuvole che andavano e venivano. Vi è qualcosa di incantevole nel non chiedersi ragioni, nell’osservare senza pretese di comprensione quel che lo sguardo casualmente incontra. Incantevole, nel senso con cui ne parlava Marius Schneider: rimanere incantati, dunque immobili, ad ascoltare quel canto sottile che emana dalle pietre. Le sue erano quelle di un chiostro catalano dai capitelli come notazioni musicali, le mie quelle dei masegni, dopo aver visto la mostra di Danh Vo. Il quale mi pare abbia colto fino in fondo questa sorta di musica, incantevole, che risuona nell’incontro occasionale di cose, spinte l’una verso l’altra da processi fisici dovuti alla forza di gravità, alla trasformazione biologica, alla stratificazione e alla collisione di storie disparate, all’azione reciproca delle materie (smalti, vernici, resine o pietre che siano), alla penetrazione stridente e malinconica che fa di ogni contatto un gonfiore (la Bocca di Lavier, o di Tetsumi Kudo, le ocarine di Petrit Halilaj, la Tête-à-Cul di Moulène), un grido trattenuto (Cri du coeur, Nancy Spero) o una trivialità (Your mother sucks cocks in Hell, Dahn Vo).
Non vi è altro che superficie per Dahn Vo, o meglio quest’ultima si limita a registrare quel che affiora dal mondo circostante. Che affiora dal profondo? Anche sì, se riuscissimo però ad intenderlo non in senso psicologico, ma come una forma di pressione sottocute verso l’affioramento.
Quella di Punta della Dogana è una mostra estremamente concreta, ed è questo che disorienta. Una mostra molto ‘fisica’ nonostante il ritmo diradato della disposizione delle opere che sembrano lasciare moltissimo spazio ad interpretazioni, o, al contrario, non ne lasciano alcuno, se non l’accettare la logica parattatica, addizionale, di Danh Vo. Il quale agisce sia come artista che come curatore, rendendo difficilmente distinguibili i due ruoli. Opere di colleghi, siano questi scomparsi o viventi, vengono trattate come componenti della propria visione, né più né meno dei materiali delle proprie opere. Una mostra dunque fatta letteralmente di consenso, cioè del riconoscere in altri un’analoga temperatura del sentire. A volte può trattarsi di un solo lavoro altrui (Polke, Sturtevant), altre volte di diverse opere (Lavier, Baghramian, Hujar, fino al nucleo così rilevante di lavori di Nancy Spero); a volte ancora può trattarsi di prelievi artistici dal passato (“maestri dei secoli XIII, XIV e XV”) resi disponibili grazie alla collaborazione di importanti istituzioni cittadine e accostati a lavori contemporanei, propri o altrui.
Le cose sembrano stare insieme con la grazia lieve, concentrata e ironica ad un tempo, di chi non esita a metterle vicine l’una alle altre, mentre ci si attenderebbe siano separate, distinte e fruibili semmai in percorsi (storico-critici) più canonici, o che quanto meno venga spiegato perché sono lì, in quella vetrina, il tricottero di Duprat che si camuffa nella foglia d’oro e la scena con la lapidazione di Santo Stefano di un miniatore fiorentino (forse perché entrambi avvolti in materiale estraneo al loro corpo?)
Non vi sono spiegazioni in mostra, le didascalie sono ridotte volutamente al minimo, e la brochure che si può ricevere all’entrata, non di rado la si ritrova abbandonata in qualche angolo dai visitatori perché, pur precisa nelle note riguardanti le singole opere ed artisti, non vi è un rigo che aiuti a seguire il ‘filo del discorso’. E anche questa è una scelta, che può essere considerata come un gesto di una qualche supponenza, ‘se capisci, bene e sennò pazienza’, o, molto più semplicemente e concretamente, non resta che rifare quel percorso di accettazione dell’occasionale (e corredo di ready-made e obiect-trouvè) che l’artista ha fatto per primo. È una lezione forse difficile da accettare per il visitatore: in fondo si ha la sensazione sia indifferente che egli comprenda o meno. Oppure, più radicalmente ancora, forse non vi è alcunché da spiegare, e dunque alcunché da comprendere. Viene da chiedersi, riavvolgendo il nastro del percorso fatto, se non sia questa in fondo la lezione, comunque di non poco conto, che viene dalle arti contemporanee. O meglio che sembra venire dal nucleo più riposto dell’arte, quello poetico, che non sopporta la logica della spiegazione, del chiarimento.
L’oca che si accosta alla figura femminile di una statua da giardino, nel lavoro di Jean-Luc Moulène, le ruota concretamente attorno, incidendone il calcestruzzo di cui è fatta con la stessa precisione di una fresatrice (da cui La Toupie, titolo dell’opera). Nella fotografia di David Wojnarowicz (Untitled/Buffalos) ricavata da un diorama dedicato alle tecniche di caccia degli indiani americani, si vedono i bisonti che, per sfuggire alla morte, si gettano dai dirupi, nell’abisso. Le briglie da cavallo, non trattengono più alcun equino e si moltiplicano nello spazio, generando Random Intersections (Leonor Antunes), mentre Retainer, nel titolo così come nel lavoro della Baghramian, ricorda una bocca con le sue protesi dentarie, e si dispone ad arco nello spazio, posizionando noi dentro la bocca stessa. Dove la lingua balbetta, non riuscendo propriamente ad esprimersi. O meglio pronunciando qualcosa che non intendevamo esprimere: un lapsus (Slip of the tongue). D’altronde, ricorda Nancy Spero, riprendendo Artaud: ALL WRITING IS PIGSHIT.
Un grande lampadario, proveniente da un prestigioso hotel parigino, se ne sta appeso sul vuoto della prima grande sala. Così come se ne stanno appesi i cartoni dipinti in vernice dorata, di prodotti di largo uso, a cui sono intervallati, sempre appesi, vecchi attrezzi agricoli, probabilmente, azzardiamo, risalenti a quel nucleo di colonie che hanno dato inizio alla storia statunitense, rappresentate dalle prime tredici stelle della bandiera, dipinte anch’esse su cartone. In fondo, accettando questa sospesa e intensa messa in scena di cose/eventi/relazioni, ci si rende conto non essere necessario affrettarsi per comprendere.
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In realtà grazie a delle accompagnatrici presenti in mostra si può scoprire tutta la fittissima, complessa e sofisticata, rete di rimandi messa su da Vo, che parla di stratificazioni culturali, problemi identitari, nonchè di omosessualità (molti artisti sono/erano omosessuali).
Effettivamente però un percorso oscuro per chi non ci metta molta volontà e non ci perda molto tempo. La mia impressione è che da un lato si neghi la comprensione, dall'altro però si diano gli strumenti per chi voglia veramente, umilmente, approfondire e capire.