Da cosa germina il tuo progetto per Manifesta 7?Arrivando da Cracovia, avendo studiato a Praga, vivendo attualmente a Graz, sono immerso da sempre nel dibattito sull’Europa centrale e sul suo patrimonio artistico e culturale. E ora lavorare a Manifesta, che ha luogo in quel famoso e quasi simbolico taglio attraverso il vero centro dell’Europa, mi dà l’opportunità di proseguire questi interessi e di approfondire un certo senso di appartenenza.
Come ti sei approcciato concettualmente?All’inizio ero intenzionato a concettualizzare l’aspetto concretamente regionale della VII edizione di Manifesta. Sono interessato al modo in cui uno guarda alla regione criticamente, disegna “la vita locale attenta a se stessa” e può mappare “le peculiarità di un particolare posto”. Il fatto che questo progetto abbia luogo a Rovereto -la più piccola cittadina nella lunga storia della biennale- mi ha anche ispirato a focalizzare la mia attenzione sulla filosofia del
Kleinstadt: con questo termine blochiano s’intende un’area attiva, lontana da una nostalgia per il passato e da un trauma di abbandono, un luogo dinamico dove la modernità incontra le sue stesse contraddizioni ed elabora una propria grammatica di appartenenze fisiche e mentali. Poi l’impressionante patrimonio del Futurismo conservato nella collezione del Mart, gli esempi di architettura post-industriale onnipresenti nel tranquillo paesaggio frastagliato di Rovereto, come anche l’attuale movimento anarchico che mette in atto un interesse pubblico verso i maggiori aspetti politici: questi sono solo pochi dei più importanti aspetti locali che hanno influenzato la traiettoria del mio progetto.
Qual è l’idea alla base del progetto?La mostra, intitolata
Principle Hope, è incentrata su una mappatura e un’analisi dell’ecologia (culturale e politica) dello spazio e del suo essere pubblico. Lo scopo è un’elaborazione di strategie provvisorie (espositive) e lo sviluppo di strumenti di critica (discussione) che conducano verso un altro (manifesto cortese per lo) spazio pubblico. Inoltre, la mostra considera l’etnologia dello spazio come un riferimento metodologico nel mettere a fuoco un “minore” locale, concreto, piccolo e apparentemente insignificante e marginale, in un paesaggio dissestato dai ritardi della ristrutturazione e della trasformazione post-industriale. Il progetto mira a condurci attraverso i dilemmi del principio che informa e caratterizza la nostra vita, in una dimensione permanente di passaggio tra una (concreta) utopia e la promessa di un incontro reale. Uno dei capitoli principali si focalizzerà sulle convergenze e contraddizioni del “post-politico” all’interno dello spazio pubblico, e sulla sua struttura comunitaria e sedicente democratica.
Come si sviluppa la tua idea di mostra?La mia attenzione si è rivolta verso gli artisti attivamente coinvolti in un dialogo con lo spazio e con l’architettura nelle loro dimensioni sociali e politiche. I progetti -perlopiù nuove produzioni, interventi site specific, basati su una ricerca sul contesto- registrano la dimensione e la comunità locali attraverso lessici non locali. Principalmente concettuali, i campi di lavoro comprendono talvolta effimeri rimandi all’identità in trasformazione, partendo dai primi film realisti come il documentario di Antonioni
Gente del Po, passando attraverso il diagramma semi-sociologico di Stephen Willats sui comportamenti umani, fino ad arrivare all’approccio radicale di Daniel Knorr verso lo spazio urbano.
Cosa, positivamente e negativamente, ti ha influenzato lavorando a questo progetto?Sono stato affascinato dalle inusuali dinamiche culturali di Rovereto fin dal primo momento in cui ho visitato la città. Nel corso della storia, Rovereto è stata uno dei centri attivi dell’élite intellettuale, andando ben oltre la propria dimensione regionale. Questo ruolo è rimasto fino ad oggi e si riflette in una diversità delle iniziative culturali interdisciplinari, che rendono quest’area attraente sia per un pubblico locale che internazionale. Questo potenziale locale -sia come componente reale che come ispirazione- va certamente visto nella narrativa della mia mostra, dislocata in due monumenti sociali di estrema importanza per il patrimonio dell’architettura post-industriale, la ex-Peterlini e la Manifattura Tabacchi.
Come cambia il tuo modo di lavorare dopo questa esperienza come curatore di Manifesta?Sono onorato di poter contribuire all’evento che ho seguito dall’inizio e che era assai significativo per introdurmi nella produzione artistica più recente e nel contesto geo-politico transeuropeo. Mi aspetto che Manifesta sia un’inestimabile lezione che mi darà un profitto a lungo termine.
Qualche nota critica?Non nego che il tempo per lavorare all’intero evento è stato troppo breve e non mi ha permesso di raggiungere quella precisione richiesta da un’esposizione di questo tipo.
Il Trentino-Alto Adige è un polo peculiare per l’arte contemporanea in Italia. Cos’ha in più? E cosa in meno?La regione e il suo ambiente sociale, culturale e geopolitico risultano un interessante caso per via di questo tentativo di rielaborare il tessuto locale. Vedo l’interesse di Manifesta verso la regione come un’opportunità unica di discutere e di riflettere artisticamente su problemi estremamente importanti per l’identità attuale dell’Europa, che da una parte sopravvive all’euforia dell’unificazione e dall’altra attraversa processi non facili di rinascita di tendenze nazionaliste e separatiste.