Settantadue anni, rigorosamente tedesco. Nella fisionomia, negli occhi azzurri, nei metodi, nella serietà, anche se i capelli scompigliati gli danno un’aria da filosofo esistenzialista più che da magnate d’impresa. Una grande passione per l’arte, cominciata negli anni ‘60 con
Emil Nolde e l’Espressionismo tedesco, poi proseguita fino al contemporaneo –
Kapoor,
Christo,
Baselitz– ma anche volgendo gli occhi al Rinascimento germanico. È Reinhold Würth, il magnate dei bulloni, delle viti, stabilmente tra i cento uomini più ricchi del mondo, secondo la classifica stilata ogni anno da “Forbes”. Personaggio assolutamente particolare e atipico, ha appena aperto nell’autunno scorso un museo presso la sede romana dell’azienda, in cui da fine febbraio (e fino a ottobre) sono ospitati i coloratissimi lavori di
Hundertwasser, con un progetto di mecenatismo assolutamente inedito: mettere l’arte tra i luoghi di lavoro. Ma facciamo un passo indietro.
È il 1954 quando Reinhold Würth, neanche ventenne, inizia a lavorare nell’azienda paterna che si occupa di vendita all’ingrosso di viti e bulloni. In un contesto industriale caratterizzato dalla forte espansione (erano gli anni della ricostruzione postbellica, segnati da tassi di crescita a due cifre nella Repubblica Federale Tedesca) e grazie alle capacità del giovane Reinhold, nel giro di qualche anno l’azienda fa un salto di qualità, cui segue negli anni ‘70 l’apertura delle prime filiali all’estero. Ora il gruppo, il cui
core business rimane la commercializzazione di sistemi di fissaggio, è presente in più di ottanta paesi, dà lavoro a oltre 45mila dipendenti ed è una delle più importanti realtà industriali della Germania.
Potremmo dire che la passione per l’arte abbia seguito, quasi parallelamente, l’espansione dell’impresa. Negli anni ’60, infatti, Würth si appassiona all’arte e inizia una vera e propria campagna acquisti, guidato “
un po’ dall’intuito, un po’ dal gusto personale, un po’ dalla storia dell’arte del mio Paese”. Si tratta di una passione essenzialmente verso le singole opere, senza una linea precisa o una volontà di portare a compimento un progetto culturale forte -come ad esempio è il caso di Panza di Biumo- da cui si evince il sincero e spontaneo trasporto per l’oggetto, alimentato da null’altro che il piacere personale. I primi amori sono l’Espressionismo Tedesco e il gruppo Die Brücke, con opere di
Max Liebermann,
Ernst Ludwig Kirchner, Emil Nolde,
Max Beckmann, ma anche autori come
Edvard Munch e “
qualcuno dei postimpressionisti francesi”. Successivamente Würth comincia a sentire il fascino dell’astratto, nei particolari della cosiddetta École de Paris e dei pittori attivi a partire dagli anni ‘40 (
Serge Poliakoff,
Alberto Magnelli,
Sonia Delaunay,
Victor Vasarely,
Franišek Kupka,
Hans Hartung,
Max Bill,
Josef Albers), e a partire dagli anni ‘80 inizia a collezionare con una certa frequenza la scultura, tra cui spiccano una monumentale opera di
Henry Moore di oltre cinque metri di altezza e lavori di grandi dimensioni di
Tony Cragg e
Anish Kapoor.
Ma la passione fondamentale resta e resterà la pittura, anche nelle declinazioni neofigurative europee come i Neoespressionisti tedeschi e la Transavanguardia: “
Quando una persona colleziona arte da trenta o quarant’anni sviluppa un metodo personale sicuro per dire che cosa sia o non sia, per lui, la qualità nell’arte”.
Lontano infatti dall’idea enciclopedica che hanno per esempio altri collezionisti abili invece a fare scelte più in linea con dettami storico-museali (vedi Pinault), Würth ci racconta che, comunque, in una vita di collezionismo “
ci sono anche scelte sbagliate, anche se non ho mai rivenduto un pezzo”.
Il progetto di fondere insieme mondo dell’arte con quello aziendale gli viene invece a metà degli anni ’80, quando si presenta la necessità di costruire la nuova sede centrale di Kunzelsau. In quell’occasione viene bandito un concorso di idee tra architetti (vinto dal duo
Siegfried Muller &
Maja Muller-Djordjevic) e il magnate decide che parte della sua collezione avrebbe trovato la propria degna casa tra le pareti degli uffici. Da quel momento, tra i corridoi e le sale dell’azienda, i dipendenti della Würth avrebbero lavorato convivendo con molti dei pezzi della sua raccolta. “
Vivere e lavorare circondati da opere è indice di una grande qualità della vita”, afferma, “
tanto più perché talvolta i dipendenti vengono con amici o parenti a fare un salto in azienda”. L’idea è quindi che il mondo del lavoro possa essere migliorato proprio “
grazie alle interazioni positive tra persone e oggetto artistico”. E non si pensi quindi solo a una disincantata filantropia, dato che rendere un ambiente lavorativo piacevole è un modo per stimolare l’efficienza e la produttività, “
conferisce un orgoglio aziendale con delle ricadute dirette sulla motivazione”.
Inoltre è centrale il fatto che un’impresa caratterizzata da una forte presenza nel settore artistico può portare a delle ricadute positive anche in termini pubblicitari, come molte delle aziende più attente stanno sperimentando anche in Italia negli ultimi anni. Si pensi al progetto di impacchettamento della sede aziendale centrale realizzato da
Christo & Jeanne-Claude nel 1995 (con un’importante appendice musicale affidata a
Philip Glass), che è stato un evento seguitissimo dai media e dal pubblico, e che ha sviluppato ricadute pubblicitarie stimate dai manager del gruppo sui 100 milioni di vecchi marchi tedeschi. Ora l’edificio è visitato ogni anno da oltre 160mila persone, sono stati creati bookshop, studiate linee di merchandising, creati appositi programmi educativi per l’infanzia.
È in questa ottica che è stato aperto nel 2007 anche il Würth Art Forum a Capena, appena fuori Roma, a ingresso rigorosamente gratuito, come gli altri musei europei dell’azienda. Si tratta di un nuovo spazio che, con la formula cara al fondatore, integra le esigenze d’impresa -essenzialmente logistiche e direzionali- con quelle del moderno contenitore per l’arte. Collocato al di fuori dei flussi turistici di massa della Capitale, è stato pensato per essere facilmente raggiungibile in auto e per intercettare un pubblico trasversale, con particolare attenzione alle famiglie, sulle quali molto si è puntato sia per le visite guidate che per la didattica.
La mostra inaugurale è stata
Percorsi da Spitzweg a Baselitz, che ha tracciato un insolito
trait d’union tra la pittura Biedermaier e i maestri dell’ultimo Novecento, mentre fino all’autunno l’Art Forum ospiterà una complessa retrospettiva antologica di Hundertwasser, figura nota al grande pubblico anche per il suo lavoro di architetto a Vienna. Ovviamente, tra le oltre cento opere, la maggior parte è di casa.