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Fondazione il Lazzaretto, dieci anni di arte contagiosa, nel racconto di Linda Ronzoni
Progetti e iniziative
Sospesa tra storia e sperimentazione, tra arte e persone, a Milano, tra stazione Centrale e Porta Venezia, si festeggia il decennale della Fondazione il Lazzaretto. La parola d’ordine è “contagio” e descrive uno spazio altro e fluido. Istituita nel 2014, quest’anno è arrivato il suo decimo compleanno e Linda Ronzoni, direttrice dello spazio, ci racconta cosa è cambiato.
Il Lazzaretto è un luogo del contagio, della contaminazione. È uno spazio un po’ nascosto, dove accadono cose, dove prendono forma mostre, laboratori teatrali, workshop e pubblicazioni. Qual è esattamente l’identità del Lazzaretto?
«Quando è nato il Lazzaretto volevamo che fosse uno spazio di libertà, uno spazio dove potessero succedere tante cose diverse. È uno spazio per i lavori teatrali, per quelli artistici, per sperimentare, per laboratori creativi e relazionali, è un luogo dove le persone, con modalità molto diverse tra di loro, possono incontrarsi. Vorremmo che fosse uno spazio di ibridazione continua, di cambiamento e contagio. A Milano mancava uno spazio che avesse un’identità un po’ ibrida, e questo, per i primi tempi, metteva in confusione le persone, poiché non era chiaro cosa fossimo. Ma pian piano è diventato il nostro punto di forza. Il Lazzaretto ha una identità ampia, è un posto in cui accadono cose molto diverse, poiché il punto non è ciò che succede, ma è il modo con cui succede. Siamo aperti alla sorpresa, a capovolgere il punto di vista e a generare discussioni».
Attivi dal 2014, come associazione, e poi diventata fondazione, ripercorrendo un po’ la storia, da dove è nata l’idea di questo spazio?
«Tutto parte da Roberta Rocca, nostra sostenitrice economica e fondatrice insieme a me e ad Alfred Drago. Lo spazio, originariamente, apparteneva alla nonna di Roberta, Andreina, che lo ha lasciato con queste parole: “Fanne ciò che vuoi, crea qualcosa di bello”. A quel punto, Alfred, io e lei abbiamo riempito il luogo con tutte le nostre passioni: arte, sperimentazione, cultura, bioenergetica e corporeità. Quando affermo che il Lazzaretto è uno spazio di libertà, intendo anche che abbiamo la straordinaria fortuna di contare su una persona, come Roberta, che ci supporta senza richiedere numeri o rendimenti specifici. Possiamo permetterci di sviluppare le nostre idee con calma, senza la pressione del tempo e con la possibilità di fallire. Per noi, il fallimento è una parte importante del processo, poiché ci consente di sperimentare».
Perché il nome Fondazione Il Lazzaretto?
«Volevamo raccogliere l’eredità del luogo, che è appunto situato nel quadrato dell’antico Lazzaretto. Abbiamo deciso di prendere questa eredità, trasformandola e creando qualcosa di nuovo, di positivo. Era importante conservare ciò che già esisteva, e per noi era proprio quel tenere viva quella storia che rendeva tutto più prezioso. Volevamo far evolvere quella prima eredità così chiusa, sperimentando e crescendo insieme al luogo. È stato proprio il luogo a guidarci in questa direzione e quindi ci è parso automatico chiamarci “il Lazzaretto”».
Hai parlato dell’antico lazzaretto, ogni anno fate il festival della peste, i vostri laboratori li chiamate virus e avete un editoriale con i pestiferi del mese. Il tema della peste è assolutamente presente. Quindi, cos’è la peste per il Lazzaretto?
«La peste per il Lazzaretto è molto più di una malattia del passato, è diventata un simbolo ricorrente che permea l’essenza stessa dell’ambiente. Sicuramente la peste per noi non è una cosa, ma è più un’idea. È l’idea della contaminazione, del mischiarsi nei confini, tra le crepe e le separazioni. Ovviamente, nel passato, il lazzaretto era un luogo che confinava i malati e li separava dai sani, e per noi questo tema del confine è importantissimo. Lavoriamo da sempre sui confini, tra ragione e sentimento, tra maschile e femminile, tra pieno e vuoto. Ci interessa ciò che succede su quei limiti, perché su quelle zone ai margini succedono sempre delle cose interessanti».
Che ruolo svolgono i visitatori? Chi sono i pestiferi?
«Ci interessa che il pubblico sia attivo, che sia parte integrante del processo. Vogliamo che non sia un pubblico passivo, che non venga lì semplicemente a contemplare le cose che accadono. Ovviamente all’inizio il pubblico era molto simile a noi, per età, per interessi, per estrazione culturale e sociale, mentre adesso è molto più eterogeneo. Spesso sono studenti del liceo o universitari. Poi, sicuramente, avere tutto gratuito aiuta, perché permette di partecipare ad attività che sarebbero molto costose. Questo fa sì che vengano anche molti pensionati, che hanno voglia di provare qualcosa che magari non farebbero. Il pestifero ha la voglia di farsi invadere dalla peste, e noi vogliamo che chi arrivi debba uscirne confuso. Vogliamo mettere dubbi per avviare piccoli cambiamenti, perché è nel caos che si genera il nuovo».
Da diversi anni avete strutturato anche un premio artistico, il premio Lydia. Esso è sicuramente una grande risorsa per molti artisti emergenti. Cosa vuole generare questo premio? Perché è dedicato alla figura di Lydia Silvestri?
«Lydia Silvestri ha lavorato nello spazio, il Lazzaretto era il suo atelier, il suo laboratorio creativo. La sua figura fa parte dell’eredità del posto. Lydia è una donna che aveva deciso di fare la scultrice, anche se i suoi insegnanti di Brera le avevano detto “che non si poteva”. Era un’artista in un mondo di uomini, e per questo per noi è una pestifera. Ci piaceva lei come personaggio e anche l’idea che il premio fosse dedicato ad artisti giovani che ancora non hanno un’identità definita. Abbiamo deciso che fosse un premio alla ricerca, poiché ci interessa capire cosa c’è dietro, qual è il processo creativo».
Arrivati al decimo anno, cosa è cambiato? Qual è stato il momento che vi ha fatto dire: “bene, stiamo generando quello che ci eravamo immaginati”?
«All’inizio eravamo molto incerti, insicuri, lo siamo ancora, e per me è un vantaggio. Dico sempre: “meno male che siamo dei principianti”. Ci sentiamo sempre un po’ sfocati, un po’ fuori posto, ma per noi è molto bello, perché ci sentiamo liberi, disposti a contagiarci a vicenda. Ovviamente, abbiamo ricevuto risposte positive, il che ci ha confermato di essere sulla strada giusta. Il pubblico è cresciuto, e sapere che le persone vengono è meraviglioso. Quando le persone vengono e ci ringraziano, si avverte un’atmosfera speciale, un senso di possibilità e sperimentazione. Questo è forse il più bel riconoscimento del nostro lavoro, ciò che ci fa dire “stiamo facendo bene”».
Qual è stata la tua attività preferita tra quelle realizzate?
«Forse sono i racconti della peste, che adesso sono raccolti in un libro. Sono stati un’occasione per entrare in dialogo con le persone. È stata una scoperta, perché non mi aspettavo tutto questo interesse. I primi racconti della peste sono partiti dai nostri punti di vista, su cosa fosse per noi fosse. Erano 23 racconti brevi: la peste è un cane randagio; la peste è essere o non essere; la peste è un pomeriggio vuoto. Io mi sono lasciata ispirare e i 23 racconti sono diventati 35. La cosa che mi ha stupito sono state le risposte delle persone, con cui è nato un dialogo, persone totalmente diverse da me. Poi scrivere era una cosa che non facevo da tempo, e ricominciare è stata una grande soddisfazione».
Ogni anno il Lazzaretto cambia tema di ricerca. Il 2023 è stato l’anno dell’esplorazione del binomio Ragione e Sentimento, che si è concluso con il festival della peste a novembre, con la realizzazione dell’opera polifonica di Gianni Moretti e Chiara Ronzoni. Quale sarà il tema di quest’anno e cosa dobbiamo aspettarci?
«Abbiamo già cominciato con la curatrice di quest’anno, Cristina Pancini, un’artista con cui abbiamo già collaborato. Ci confronteremo sul tema del “mostruoso” con una varietà di artisti e professionisti molto diversi: incontreremo un’archeologa, una semiologa, un ingegnere e una psicoterapeuta, ognuno con una prospettiva unica su questo tema. Sarà interessante capire come il progetto prenderà vita. Il tema del “mostruoso” ci interessa molto, poiché crediamo che, in un periodo di grande perfezionismo e di conformismo, sia fondamentale affrontare il concetto di “mostro”. Ci chiediamo quali mostri siano necessari, perché crediamo di avere bisogno di mostri che ci spingano ad andare oltre».
Siamo nel 2034, la Fondazione compie i suoi 20 anni. Cosa sarà cambiato? Cosa sarà rimasto uguale? Cosa dobbiamo ancora vedere?
«Il mio desiderio è che pian piano, senza necessariamente abbandonare il timone, cominciamo a lasciare un po’ di spazio. Negli anni passati siamo stati molto presenti e avevamo un’idea precisa, il che aveva senso per mantenere una qualità e un’identità così definita in tutti i nostri materiali. Forse era necessario. Tuttavia, ora mi piace l’idea di lasciare che altri curino gli eventi, permettendo al pubblico di prendere gradualmente più potere. Mi piacerebbe creare un piccolo nucleo di affezionati, di ambasciatori, che pian piano diventino sempre più numerosi. Vorrei che la nostra visione del “pestifero” diventasse sempre più ampia, coinvolgendo un pubblico più vasto».