Un gruppetto di artisti intorno alla trentina d’anni per fare il punto sull’astrazione anni Duemila. In Principio d’indeterminazione – l’astrazione dopo l’astrazione (fino al 23 settembre) Ivan Quaroni ha selezionato per Abc Arte sei appartenenti alla meglio gioventù aniconica, piccola scuderia – campione tanto individuale quanto rappresentativo – sufficiente ad affrontare in modo critico l’andazzo attuale della produzione astratta. Oggi che l’imponente curatore afferma «non c’è più necessità di una separazione netta tra figurativo e astratto», in un tempo in cui «l’astrazione non è più legata alla militanza comunista, o comunque tra le frange della sinistra» e «le immagini dominano la nostra quotidianità», gli artisti risultano ben più predisposti all’espressione autonoma del proprio ego. Quindi ad essere liberi anche sotto il segno del rigore, che spesso e volentieri per i magnifici sei sembra essere un pretesto per simularne la disintegrazione.
Prendiamo Giulio Zanet (Colleretto Castelnuovo, 1984), proveniente dal figurativo e da circa due/tre anni felicemente approdato ad un’astrazione radicale, interessato unicamente allo sviluppo pittorico di colori e forme. Un paio di opere su tela, ma soprattutto il site specific che corre tutto lungo la scala d’ingresso, sintomo di un astrattismo che alla gravità narrativa preferisce un espressione pienamente divertita. È un passaggio obbligato tra le forme colorate di una wonderland innestata sulla neutralità cromatica della galleria, quasi lo stesso effetto che si ha guardando i disegni dei bambini applicati ai tristissimi muri di alcune scuole elementari. Piaccia o meno il risultato, il meglio di Zanet sta nei materiali – per cui dichiara di utilizzare il feltro come base perché meglio adattabile del cartoncino o della tela ad ogni curvatura (i site specific spesso nascono già cento per cento riciclabili) – e nella capacità di fondere un linguaggio sentitamente gioviale sulla sintassi astratta prettamente analitica.
Anche Isabella Nazzarri (Livorno, 1987) nasconde un passato figurativo tra le forme pseudo floreali dipinte per il site specific a soffitto di una sala, lavorazione ad acquerello su muro con cui sfida apertamente il richiamo all’affresco, «tecnica ormai poco utilizzata» a suo dire. Astrattismo pervaso da classicità a go go, in un’impostazione centro-periferica che emula episodi seicenteschi come il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona, e si completa nello stesso ambiente di un piccolo bozzetto; che poi bozzetto non è per ragioni di consecutio, nato in realtà successivamente al dipinto murale. Sfasatura temporale spia di una “cultura dell’inganno” che è codice comune un po’ per tutti gli artisti presenti. Inganno percettivo per Matteo Negri (San Donato Milanese, 1982), che finito di giocare coi Lego ha convertito la regolarità di quei mattoncini nella geometria “all’infinito” di Kamigami come L’oro di Genova, fastidiosamente attraente coi suoi buchi neri equidistanti, digradazioni tonali e una superficie di sbieco riflessa nel perimetrale acciaio specchiante. Anticonformismo d’effetto, ma anche gradatamente ossessivo e un po’ fantozziano (ricordate Pina che nascondeva sfilatini in ogni dove?), è poi il subdolo inserimento di tre Kamigami tra i cassetti di un vecchio comò, col nostalgico titolo Ricordi di un’estate.
Viviana Valla (Voghera, 1986), Paolo Bini (Battipaglia, 1984) e Patrick Tabarelli (Verona, 1979) fanno parte di quell’astrattismo dove coltivare la regolarità è un buon incentivo per romperla a piacere; la Valla coi suoi post-it ripassati con una finta calligrafia, disposti seguendo una ritmica che finisce sempre dove comincia la riscrittura estetizzante dell’insieme messo in opera, dei piccoli foglietti quadrati e della pittura stesa su di essi. Per materiali e ritmo sintattico la vogherese pareggia con l’ideale astratto del campano Bini, con strisce in nastro carta intente in coerenti movimentazioni cromatiche, «dei paesaggi» li definisce Quaroni, lavori di pazienza in cui l’imperfezione – un po’ come per la Valla – è sempre incipiente sulla regolarità. E di lui, che opera tassativamente ad acrilico, tuttavia rimane nel cuore lo strappo di un potentissimo monocromo a pigmento viola, forse meno caratterizzante e più tendente a sperimentazioni monocromatiche d’un tempo (Manzoni-Klein), ma di fattura davvero pregevole.
Last but not least arriva Tabarelli, le cui opere in infilata caricano appeal proporzionalmente all’aumentare della distanza da esse, sviluppando sulla base di linee necessariamente piane contenuti volumetrici estremamente specifici, con risvolti pittorici similari a quelli delle termografie. La sua presenza non poteva mancare, chiude perfettamente il cerchio su questa ricognizione in quanto ideologicamente il più avanguardista del gruppo coi suoi lavori, prodotto di algoritmi sviluppati attraverso rudimentali drawing machine, in piena negazione dell’intervento manuale nella creazione dell’opera. Tolto l’intervento fattivo dell’uomo, l’astrazione è una triangolazione contemporaneamente legata a processi seriali, all’autonomia delle sue dinamiche espressive e ad un’innata pertinenza col tempo creativo. Elisir di lunga vita per un’araba fenice che mai abbandonerà il suo posto.
Andrea Rossetti
Sopra: Matteo Negri – Ricordi di un’estate – 2016 – courtesy Abc Arte
In home page: Giulio Zanet – Senza titolo – 2016 – courtesy Abc Arte