Gian Maria Tosatti 4 e 5. Ancora a Napoli

di - 10 Novembre 2015
Gian Maria Tosatti ritorna a lavorare nel ventre della città partenopea regalandoci altre due affascinanti tappe del percorso ascensionale mediato dall’opera Il Castello Interiore scritto da Santa Teresa d’Avila nel 1577 e dal numero sette, numero mistico ed esoterico per eccellenza. L’artista, in due anni di lavoro ha realizzato a Napoli, la città in cui il Caravaggio ha dipinto Le sette opere di Misericordia, cinque delle sette tappe di una grande opera “site-specific” che si intreccia con il tessuto urbano del centro storico dal titolo “Sette stagioni dello spirito”.
Il complesso lavoro di riflessione sulla città, vista come una grande metafora dell’essere umano, è stato realizzato attraverso degli interventi artistici site-specific in alcuni edifici abbandonati in cui è rimasto vivo il genius loci che l’artista rivitalizza attraverso dei suggestivi scarti percettivi. Il lavoro di Tosatti è cominciato nel cuore dei quartieri Spagnoli, nella Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, in una zona di degrado urbano e sociale che l’artista identifica con le zone più periferiche dello spirito e quindi con la malattia e il flagello della Peste, per proseguire con l’inerzia opprimente dell’installazione Estate nell’ex anagrafe del Comune. Nella terza tappa, dedicata a Lucifero, negli ex-magazzini del porto l’artista ha sostituito alla cruda metafora politica della seconda tappa e alla disperazione del peccato e della malattia della prima, la pulsante spiritualità di un percorso teologico volto alla comprensione della figura del diavolo e quindi del male. In questa quarta tappa, intitolata Ritorno a casa, realizzata nell’Ex Ospedale Militare della città, l’artista ci fa sostare sulla spiaggia del Purgatorio dantesco, un luogo desolato dove Dante e Virgilio giungono sbucando dalla natural burella, una sorta di cunicolo sotterraneo, che la congiunge con il centro della terra dove, nel ghiaccio eterno del Cocito (il quarto e ultimo dei fiumi dell’inferno dantesco), è conficcato fino al petto Lucifero insieme alle anime dannate dei traditori dei benefattori. Il purgatorio è il secondo dei tre regni dell’oltretomba cristiano che Dante visita con la guida del poeta Virgilio ed è descritto come una montagna altissima che si erge al centro di un’isola. I luoghi del Purgatorio sono due: La Spiaggia e la Montagna e anche Tosatti ha così suddiviso il suo percorso ascensionale.

Questi due luoghi simbolici sono diversissimi fra loro e non solo fisicamente, la spiaggia è una superficie piatta, orizzontale che metaforicamente esprime il concetto di durata secondo lo scorrere del tempo lineare della nostra dimensione terrena mentre la montagna, con la sua verticalità, esprime la spinta verso l’alto che deve compiere l’anima per raggiungere la salvezza eterna del Paradiso. Per la prima volta entrando nelle stanze desolate dell’ex ospedale, il fruitore è costretto ad una presa di coscienza e quindi a diventare il protagonista di un lavoro che parla di noi e dei nostri limiti morali. In quel vuoto temporale, in quell’atmosfera sospesa e come congelata, in quella mancanza di presenza umana siamo obbligati a confrontarci con noi stessi e con la nostra solitudine di esseri umani adulti. Il vuoto che ci circonda in quell’edificio abbandonato da quarant’anni è uno specchio del vuoto che spesso tracima dentro le nostre vite di ex adolescenti forse mai cresciuti del tutto. La consapevolezza della nostra solitudine è così forte che per tutto il tempo in cui sono rimasta dentro la gigantesca macchina scenica concepita da Tosatti mi sono chiesta parafrasando il Pasolini poeta di Transumanar e organizzar quanto forti dovevano essere le mie gambe per poter sostenere tutta quella solitudine.
Tutto il percorso che si compie nei lunghi corridoi dell’ex ospedale (in tutti i lavori site-specific di Tosatti bisogna entrare da soli per perdersi e poi ritrovarsi) è un gioco di specchi, di ripetizioni, di stanze clonate che si ripetono dilatando non solo il tempo, ma anche lo spazio. Al secondo piano gli specchi che moltiplicano la percezione delle cose sono spariti, così come la nostra immagine riflessa e il nostro io è obbligato a specchiarsi all’interno di se, lo specchio è diventato un vetro attraverso cui provare a ritrovare noi stessi.

La solitudine ci obbliga a guardarci dentro, un esercizio importante per imparare a riconoscerci  e “saperci riconoscere” è la chiave per non perdersi nel labirinto delle apparenze. Ogni oggetto è simbolico e nulla è casuale, la bottiglietta di Novalgina sul tavolo di una delle ultime stanze è un chiaro riferimento al dolore che il mestiere di vivere comporta, un armadio che blocca la porta finestra al primo piano impedisce alla luce di entrare e al suo interno non ci sono i vestiti, ma uno spesso strato di cera che rappresenta le scorie ovvero il sudore accumulato negli anni.  Il piano ammezzato ha il soffitto affrescato e ai lati del lungo corridoio ci sono due file di vasche piene d’acqua, il muro in fondo è dorato. C’è dunque una speranza, lo spirito simbolicamente può cominciare a elevarsi.
Sempre seguendo Dante e la sua Divina Commedia, dopo la spiaggia, con tutta la sua brulla desolazione, c’è da affrontare la montagna dove ancora le anime sono vittime della legge del contrappasso come nell’Inferno, ma la pena non è più infinita perché c’è la salvezza eterna alla fine del proprio cammino di espiazione attraverso le sette cornici che corrispondono ai sette peccati capitali.
La Quinta tappa nell’Ex convento di Santa Maria della Fede nel centro storico della città è la naturale conseguenza della precedente e, infatti, queste due installazioni andrebbero viste una dopo l’altra perché i due percorsi sono complementari. In questa tappa, intitolata i Fondamenti della luce, si parla dello splendore insopprimibile che alberga nel fondo dell’uomo e la politica torna a essere protagonista come un fardello pesante che grava sulle nostre spalle. Tosatti nelle sue stanze al primo piano ci racconta gli anni di piombo e le scelte estreme, compiute pensando di fare il bene, che hanno portato al terrorismo. Tutto il lavoro però nasce da una lettera d’amore, una tragica lettera, scritta da una ragazza, Paolina T, vissuta nei primi anni del secolo scorso che a causa della sua povera origine venne internata in un manicomio con la diagnosi di “immoralità costituzionale”. Il luogo scelto da Tosatti per ospitare questa tappa della sua opera ben si collega con la tragica storia di Paolina, l’ex reclusorio era una sorta di carcere per donne libere, voluto da Maria Amalia di Sassonia moglie di Carlo III di Borbone, per ospitare un ritiro di sole donne che in seguito diventò un ospedale per le prostitute.

In questo lavoro Tosatti ci parla della salvezza come riscatto collettivo, sociale e di classe. Il male di cui ci parla in questa quinta tappa ha un volto umano, quello dei tanti che pur non volendo fare il male lo hanno compiuto. Al primo piano dell’edificio incomincia la via verso l’illuminazione con la progressiva smaterializzazione sia dei beni materiali che dei ricordi, più saliamo più andiamo verso la luce lasciandoci alle spalle tutto ciò che non serve e che rappresenta un fardello in modo da attraversare la vita con leggerezza “come dei passanti” (S. Tommaso d’Acquino, Vangeli Apocrifi). Queste due tappe rappresentano i due punti focali di snodo tra il male e il bene, tra l’abisso dell’inferno e la vertigine del paradiso.
Un lavoro enorme quello di Gian Maria Tosatti che in due anni ha rimesso in piedi, rendendola nuovamente fruibile, un pezzo di città attraverso l’arte. E lui, con i suoi interventi, ha sancito un ruolo salvifico alla pratica dell’arte.
Paola Ugolini

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