Gilardi forever

di - 15 Aprile 2017
«Operazione importante». Ecco le prime parole venute in mente a Bartolomeo Pietromarchi per descrivere “Nature Forever”, consistente antologica che il MAXXI (fino al 15 ottobre) dedica a Piero Gilardi (Torino, 1942), e della quale lo stesso direttore del MAXXIArte è curatore assieme ad Hou Hanru e Marco Scotini. Due parole che hanno un peso speciale, perché Gilardi è Gilardi, e perché – continua Pietromarchi – l’intenzione è presentare «Opere e personaggio in tutte le attività», offrendo un’inedita visione «a trecentosessanta gradi». Rincara Scotini parlando di «una grande opportunità per la cultura italiana» e di «prima retrospettiva che raccoglie tutto il pensiero di Piero», ben conscio che definire unilateralmente la caratura artistica di Gilardi – qui più che mai «soggetto plurale» sempre secondo Scotini – non sia possibile.
Anzi, stando in tal modo le cose “Nature forever” pare quasi un titolo provocatorio nel suo essere ricercatamente riduttivo, come a voler pretestuosamente rimarcare la predominante poetico-gilardiana più nota al pubblico (in particolare dei collezionisti), quella che l’ha battezzato uomo dei Tappeti-Natura. È l’esasperazione di quel forever ad essere provocatoria, inglesismo in cui si cela la volontà di ampliare il Gilardi-pensiero spartendolo nelle quattro sezioni (L’arte abitabile; Animazioni politiche; New media art; Il teorico e l’attivatore), quattro variazioni sul tema, quattro branche la cui peculiarità è discernere la multipurpose activity (per continuare con l’inutile anglofonia) dell’artista torinese.
Proprio in materia di costruzione espositiva incuriosisce un intervento di Pietromarchi che, da uomo molto pratico, parla di mostra «strutturata in isole». Una specie di arcipelago quindi. Sarà mica per questo che la sensazione più incipiente è che ogni sezione galleggi motu proprio nello spazio della Galleria 3? Scherzi a parte, la sintassi espositiva non presenta poi grossi patemi; tuttavia la non totale emulsione tra le varie parti/sezioni è un problema oggettivo, determinato più dalla conformazione disarmonica dello spazio che dalle intenzioni dei curatori. Un peccato veniale se, pur non risparmiando immagini di gente vagante a destra e a manca come in preda alla labirintite (peculiarità – palesemente non dichiarata – del MAXXI è mettere a dura prova l’orientamento umano), alla fine questa mostra riesce a far valere la sua razionalità espositiva, risultando un compendio tematico-cronologico anche molto piacevole.
E poi c’è lui, Gilardi, l’uomo dall’apparenza che inganna. Settantacinquenne placido, quasi francescano mentre afferma che «Le rane sono nostre sorelle» e invita degli increduli astanti ad un’immersione – quasi catartica di tutta la cattiveria umana – in mezzo ad Inverosimile, bucolico, danzante e un po’ delirante tripudio di pampini e acini d’uva. Pilastro di tutta l’area New media art, anello di congiunzione per l’artista torinese tra interazione soggettiva ed opera d’arte. Basta un soffio – nella fattispecie quello della compagna di Gilardi – e la natura (in puro poliuretano) si trasforma nella Gardaland romana, con tanto di chiosa finale della presidente Giovanna Melandri, spumeggiante e in vena di alzare la suspance rimarcando che «Questa è solo una delle installazioni». Per il MAXXI è Gilardi-mania, una personalità totale, capace di prenderti ed immergerti in un universo naturalmente finto in tutto per tutto; scenografico quanto quel praticello sintetico che, imperversando già da metà scala d’ingresso, prepotentemente delinea la sua personale come una gigantesca wonderland. Il vigneto danzante, che un po’ ti fa sentire l’Alice di turno, è perciò elemento d’uopo.
Pare il San Francesco del contemporaneo, ma Gilardi è stato – ed è tutt’ora – scomodamente polemico su determinati aspetti della società contemporanea, archetipo dell’artista che considera la propria attività parte integrante e integrativa del divenire di quella stessa società. Sin dagli anni Sessanta, sin dall’atto di scolpire nel poliuretano delle zolle di terreno finto senza troppo nascondere la loro finzione materica, cercando nell’arte un linguaggio visivo adatto a ribattere e a far riflettere sul rapporto poco idilliaco creatosi nel rapporto uomo/natura, ambiguo ancora in tempi odierni. Sbocciano allora concluse distese di angurie e mele avvolte da un fogliame tagliato grossolanamente, troppo spesso per esser vero; volano gabbiani tutt’altro che iperrealistici, mentre nel greto di un fiume i sassi riflettono tutte le inclusioni argentee del loro genuino poliuretano. Chili e chili di poliuretano, materiale di sintesi che abbonda, sovrabbonda e soffoca la realtà delle cose, innestandosi su di essa con la sua mimesi approssimativa, e un aplomb goliardicamente polemico. Tanto (finto) ben di Dio in cui s’avverte solo una nota stonata: avere alcuni Tappeti-Natura sotto plexiglass, in un settore chiamato L’arte abitabile, non è un leggero controsenso? E la misura esperienziale dell’opera s’è persa per strada? Più che abitabile, così com’è appare arte di mero consumo collezionistico; in senso assoluto ci sta, pecunia non olet disse un certo Vespasiano, ma questo è il MAXXI e non un appartamento della Roma bene. Preservare i lavori è un imperativo, ma non a scapito di una certa qualità di fruizione, per di più in un museo pubblico. E se possibile il plexiglass lasciamolo a chi un Gilardi se lo mette in salone.
Il linguaggio piccato, di chi ha qualcosa da dire, o da ridire, e perlopiù con il medesimo materiale. L’area è Animazioni politiche, ma si nuota ancora nel poliuretano, con cui il torinese costituisce carnevalesche maschere allegoriche volte a stigmatizzare la classe politici dei vari tempi. E tra un vampiresco Andreotti volante, uno Pterocraxi e un Renzi bifronte l’atmosfera Gardaland degli esordi è già tramutata in quella della Viareggio di metà febbraio, con un ambiente carico (molto carico) di pezzi decontestualizzati con criterio; belli nel loro descrivere un ennesimo Gilardi, performer attivo nelle manifestazioni, acerrimo nemico dei potenti generazione dopo generazione, dalla Fiat dell’avvocato Agnelli a quella di un Marchionne sotto sembianza di squalo sanguinario e profittatore. Gilardi accende l’iconografia, da portentoso caricaturista valorizza i tratti e li modella sul messaggio voluto, optando per un’azione plastico-visiva spesso accorpata al verbo scritto con funzione narrativa e amplificante. Di pregio è poi la cura degli apparati scelti a corollario del tutto, con disegni su carta che racchiudono la potenza creativa dell’artista più due supporti audio-video, il primo dedicato alla genesi di quei “mostri”, il secondo ad un gustoso revival delle manifestazioni che li hanno avuti per protagonisti.
Data la forte connotazione ideologica, Animazioni politiche è per forza di cose una bomba carica di giudizi molto personali, che ovviamente non sempre e non tutti potranno trovare condivisibili. Non staremo in questa sede a dilungarci sull’opportunità, ad esempio, di ritenere la Tav un’infrastruttura “inutile, costosa, devastante”; però necessariamente permetteteci di spendere qualche riflessione – ad ampio raggio – su un’istallazione particolarmente sentita e controversa come Il masso della crisi, un enorme pietrone in lattice su cui il pubblico può intervenire spingendolo. Il suo problema è prima di tutto l’essere infelicemente posizionato in uno stretto e limitante corridoio: sarà pure morbido, ma prenderlo in pieno (solo l’Uomo ragno e pochi altri sanno schivarlo quando inizia a rotolare in quello spazio ristretto) può non far sto gran piacere. Impropria collocazione a parte, l’installazione si completa con delle sagome umane insanguinate e riportanti la dicitura operaio/operaia: ok, sulla parità dei sessi siamo a posto, ma la crisi ha colpito solo gli operai? Tutti i piccoli imprenditori finiti tra le pagine di cronaca ce li siamo dimenticati? O sono forse meno importanti? C’è puzza di parzializzazione della realtà, qualcosa che va oltre l’appartenenza a quello o quell’altro partito; all’amare Berlusconi o al gridare Scopiamo via Berlusconi (e non spazziamo), in un installazione che maliziosamente sembra incorrere nel velato doppio senso con le epocali prodezze sessuali dell’ex-premier.
Ma questo è Gilardi, prendere o lasciare. Forever and ever.
Andrea Rossetti

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