Giochi? No, creo futuro per il Paese |

di - 23 Dicembre 2016
Una delle ultime frontiere della ricerca internazionale è senz’altro costituita dal tema delle Industrie Culturali e Creative. Eppure, nonostante questo grande interesse, l’argomento è ancora lontano dall’essere trattato come un tema unitario. Esistono sicuramente comparti omogenei, che uniscono alcuni settori di attività ma è raro che questi agglomerati dialoghino tra loro. Da un lato, ad esempio, c’è sicuramente tutta la filiera artistica (gallerie, artisti, etc), dall’altro ci sono i settori business (advertising, software, etc.).
Poi, inspiegabilmente, ci sono alcuni temi che non vengono mai (o quasi) trattati. È il caso dell’industria dei videogame, della quale si osservano di più le dimensioni ludiche, senza però approfondire molto di più. E questo è sicuramente un errore, dal momento che al pari di quella cinematografica, l’industria dei videogiochi riesce esattamente a coniugare lo spirito delle ICC: da un lato una grande componente creativa, composta da sceneggiature, storytelling avvincenti e soluzioni grafiche di elevatissima qualità, dall’altro la componente industriale, con organizzazione del personale, posizionamenti strategici e un giro d’affari pari a quasi circa 100 miliardi di dollari secondo le stime del 2016 riferite al comparto.
In Italia, per uno strano scherzo del caso, il giro d’affari è pari a circa l’1% di quello globale, esattamente come nel caso del mercato dell’arte ed esattamente come il trend di crescita del nostro Paese. Ma pur essendo molto simili tra loro, questi risultati sono tutt’altro che sovrapponibili. L’1% del mercato dei videogame è sicuramente una conquista e vale sicuramente più dell’1% del mercato artistico.

Quest’ultimo, infatti, è il risultato di uno scenario (fiscale, legislativo, regolamentare) tutt’altro che entusiasmante, in grado di annichilire (o quasi) una grande passione che gli italiani hanno per l’arte (in termini di collezionismo così come di vendita diretta di opere tra operatori). Come dire, se non fosse per le condizioni di incertezza dello scenario, dato il capitale iniziale (fatto di opere, ma anche di esperti) il mercato domestico legato al settore artistico sarebbe molto più produttivo.
Diverso è invece il caso del mercato dei videogame: a differenza di altre nazioni, infatti, l’Italia non vanta una grande tradizione di sviluppatori e le condizioni del mercato sono tali da incentivare moltissimo il fenomeno di fuga di cervelli nel settore. A questo si aggiunga l’assenza di capitali esteri, e l’incapacità del nostro Paese di attrarre Investimenti Diretti Esteri se non in settori altamente consolidati, e quell’1% acquisisce una grande rilevanza economica.
Oltre all’acquisto di titoli mainstream, prodotti quasi esclusivamente dalle grandi major del settore (le cosiddette tripla A), questo risultato nasce infatti dalle esperienze di tanti produttori indie (indipendenti) che con passione e professionalità sperimentano il medium videoludico proponendo titoli alternativi.
Questa schiera di produttori artigianali, risponde esattamente alle statistiche legate all’intero comparto delle ICC: numerose microimprese (con in genere non più di un dipendente) con fatturati medio-bassi e con un tasso di innovazione elevatissimo.

Eppure, gli effetti positivi in termini di ritorno economico totale (diretto e indiretto) sono numerosissimi: da un lato lo sviluppo dell’industria videoludica potrebbe portare ad un maggior livello di occupazione, soprattutto con riferimento a fasce di lavoratori giovani, dall’altro l’industria videoludica (di nuovo al pari con l’industria cinematografica) può rappresentare un nuovo medium attraverso il quale un territorio può creare operazioni di brand awareness.
A differenza della location cinematografica, tuttavia, la location dei videogames rappresenta molto più che uno sfondo, ed è anzi parte integrante del gioco, con effetti ben più profondi sul livello di riconoscibilità e di affezione da parte del fruitore.
Su questo versante appare il progetto sviluppato dalla Italian Film Commission e l’AESVI (associazione degli editori e dei programmatori di videogiochi italiani), che cerca di replicare il set d’offerta messo a disposizione delle produzioni cinematografiche nel campo videoludico, con l’obiettivo di incentivare la produzione di videogames ambientati in location nostrane.
Un buon passo avanti, ma di certo la differenza tra questi due settori è ben lungi dall’essere colmata: l’attrazione di produzioni cinematografiche estere, così come le agevolazioni alle produzioni italiane, sono molto competitive rispetto all’intero scenario europeo. Prevedere una serie di misure e manovre in grado di favorire l’emergere di nuove produzioni nel campo del videogame sarebbe sicuramente una mossa intelligente per creare nuove possibilità di lavoro e soprattutto per attirare co-produzioni che permettano al tessuto imprenditoriale attivo di lavorare a stretto contatto con imprese molto più strutturate, e così emergere in uno scenario globale.

Si pensi all’impatto occupazionale, ma si pensi anche agli impatti che questa serie di attività potrebbe generare sul turismo: dai fenomeni di consumi turistici legati alle esperienze di gioco, fino alle produzioni ospitate per la realizzazione di videogame ambientati in Italia, soprattutto tenendo conto di come, per i videogame, siano in genere privilegiate ambientazioni tutt’altro che urbane, con una grande potenzialità di sviluppo per i nostri centri minori.
Ma così come per il comparto delle ICC nel suo complesso, anche per l’industria dei videogame le condizioni che il nostro Paese offre non sono esattamente vantaggiose, probabilmente a causa di un attrito culturale che rallenta inesorabilmente le nostre scelte di policy. È come se fossimo vittima dei nostri stereotipi e non riuscissimo a vedere oltre il Colosseo, la Lettera 32 e Cinecittà.
Stefano Monti

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