Giuseppe Penone, sentire la natura con il corpo |

di - 30 Gennaio 2017
Qualcuno le ha spiritosamente definite le Penoniadi e, in effetti, il 26 e il 27 gennaio sono stati i due giorni romani dedicati a celebrare l’arte di uno dei più importanti scultori italiani viventi: il piemontese Giuseppe Penone (Garessio 1947). La prima serata, quella di giovedì 26, ha visto schierata una potenza di fuoco, economica e intellettuale, che non poteva che dare un ottimo risultato, come infatti è stato. La maison di moda romana Fendi, e quindi il megapolo del lusso LVMH che l’ha acquisita nel Duemila, un curatore eccellente e internazionalmente riconosciuto come Massimiliano Gioni e la Galleria Gagosian hanno unito le loro forze per presentare nei nuovi spazi appena restaurati della maison una imperdibile selezione di quindici installazioni e sculture dagli anni Settanta ad oggi accanto a una selezione di disegni e opere su carta.
Questa personale di Giuseppe Penone nel Palazzo della Civiltà Italiana (fino al 16luglio) è la sua prima grande mostra istituzionale a Roma da quasi un decennio. Alla fine della scalinata di accesso al Colosseo quadrato svetta Abete (2013), una grande scultura inedita alta più di venti metri, Penone ormai da tempo lavora su scala urbanistica progettando installazioni site specific all’interno del tessuto cittadino. Abete con la sua straniante e affascinate presenza anticipa il regalo che la maison Fendi farà alla città di Roma: l’installazione della grande scultura Foglie di Pietra (2016) formata da due alberi di bronzo (di 18 e 9 metri) che intrecciandosi sollevano a oltre cinque metri da terra un blocco di marmo scolpito di 11 tonnellate.
L’idea alla base della mostra ospitata all’Eur è la sublimazione di quel dialogo fra architettura e natura che da sempre ha affascinato gli esseri umani, e le perfette geometrie che disegnano il Palazzo della Civiltà Italiana, gioiello architettonico fascista realizzato nel 1942 e mai utilizzato, si sono dimostrate la cornice più adeguata per le opere di Penone che ci mostrano una natura sfrondata del superfluo e magistralmente sublimata nella sua essenza. Le forme organiche ricreate dal maestro in legno, bronzo e marmo sono l’ideale contrappunto al rigore geometrico delle grandi navate del piano terra del Palazzo dove storia e cultura si confrontano con la natura, con il suo lento ma inesorabile germogliare e proliferare nonostante la presenza umana. Tempi storici e tempi biologici si sovrappongono e si fondono dando vita ad inaspettate, nostalgiche e romantiche metafore visive, come nell’opera Foglie di pietra (2013), presentata per la prima volta in Italia, in cui un frammento inciso di trabeazione classica è imprigionato fra i rami bronzei di un arbusto contorto.
La presenza-assenza del corpo dell’artista che plasma, accarezza e “sente” il soffio vitale della natura è ben espresso dall’opera del 1979 Soffio di foglie, un cumulo di foglie di mirto con impresso il calco del corpo dell’artista, mentre in Essere fiume (2010) la mano di Penone ha trasformato due blocchi di marmo bianco di Carrara in due pietre levigate dallo scorrere dell’acqua di un fiume, esercizio di stile raffinatissimo nonché opera altamente filosofica che ripropone, fornendo allo spettatore una bellissima allegoria della scultura, l’annosa questione dell’imitazione della natura. Ripetere il bosco (1969-2016) è la ricostruzione di una piccola foresta formata da vari tronchi scavati in altrettanti blocchi di legno, è una natura artificiale ma allo stesso tempo naturale, in un gioco straniante di rimandi fra vero e falso che, osservata attraverso la lente dell’oggi, non può che farci riflettere sul pericolo di una natura sempre più artificiale e slegata dai ritmi naturali.
L’opera che dà il titolo alla mostra Matrice (2015) occupa tutto lo spazio della seconda navata, è un’installazione monumentale di circa trenta metri in cui un abete è sezionato in verticale e scavato al suo interno in modo da far vedere l’anello di crescita che racconta la storia dell’albero e il suo evolversi negli anni. Lo sguardo, che potrebbe attraversare il tronco per tutta la sua lunghezza, è bloccato da una forma scultorea in bronzo incastonata nel legno e che sembra “raggelare il flusso di vita dell’albero”. Sentire la natura e poter palpitare all’unisono con il suo ritmo segreto è la forza spirituale che permea tutta la pratica dell’artista sin dagli esordi nel 1970 con il gruppo dell’Arte Povera. Il rapporto fra l’essere umano e il suo esterno è sublimato dalla famosissima opera Rovesciare gli occhi del 1970, un lavoro forte, sintetico e decisamente magnetico in cui l’artista si fa fotografare con gli occhi coperti da un paio di lenti specchianti che accecano chi li porta ma allo stesso tempo restituiscono allo spettatore il paesaggio che l’artista non vede. Questo interessante gioco di rimandi e di visioni sottolinea come il doppio registro di introspezione/estrospezione non solo non è in conflitto dialettico ma, anzi, sublima la rappresentazione del suo profondo rapporto di comunione spirituale con la natura.
Ed è proprio partendo da quest’opera leggendaria in cui l’artista è una sorta di profeta cieco sospeso fra futuro e passato che Giuseppe Penone affronta il nuovo lavoro presentato per la prima volta nella galleria romana di Gagosian. Accarezzare la natura, sentirla con il corpo, immaginarla con gli occhi chiusi, è il punto di partenza per realizzare Equivalenze (fino al 15 aprile). Toccare la creta, stringerla nel pugno, queste sono le corrispondenze che attraverso il processo scultoreo l’artista stabilisce con la natura. Un rapporto che fluisce ininterrottamente fra il corpo e la natura, la natura come matrice primaria e il corpo che energeticamente imprime le sue forme alla materia. Le lastre di ottone acidato in cui sono impressi i geroglifici che compongono l’epidermide umana sono il supporto ideale per le forme di terracotta modellate nel pugno dell’artista. Al centro della galleria Equivalenze (2016) è la fusione in bronzo del calco in gesso di alcune parti di un albero. Le radici si arrotolano sinuose sulla corteccia per dar vita ad un gioco di vuoti e di pieni che ricordano una forma antropomorfa. In questa perfetta rappresentazione del difficile equilibrio fra corpo umano e sua controparte vegetale ho ravvisato un non velato omaggio alla scultura barocca di Gianlorenzo Bernini che nell’Apollo e Dafne ha così meravigliosamente rappresentato l’umano che si fa vegetazione.
Giuseppe Penone è un poeta, un poeta che attraverso il gesto svela l’anima delle cose.
Paola Ugolini

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