È Antony Gormley il protagonista della mostra che si tiene quest’anno al Forte di Belvedere a Firenze (a cura di Arabella Natalini e Sergio Risaliti, fino al 27 settembre). Circa 120 opere disseminate nello spazio dell’antica fortezza medicea che domina la città: corpi, uomini, human appunto a grandezza naturale che l’artista inglese, seguendo la propria consuetudine, ha realizzato in ferro secondo due tipologie essenziali: calchi del corpo dell’artista o anatomie umane decostruite attraverso moduli geometrici (Blokwork). Sono tutte opere senza piedistallo e hanno l’altezza di un essere umano ma il peso varia dai 630 agli 800 chili; usa infatti il ferro che è il materiale che sta al centro della terra e che costituisce la forza di gravità e, a differenza delle sculture rinascimentali che al loro interno erano cave, queste opere esprimono la materializzazione di uno spazio umano in uno spazio artistico.
L’uomo con i suoi fardelli e le sue conquiste è il fulcro della ricerca artistica di Gormley che con questa mostra non vuole esporre opere monumentali che si rapportino alla maestosità del sito che le accoglie e al paesaggio sottostante, ma espone opere a dimensione umana in grado di permettere al sito che le contiene di esprimersi in tutta la sua potenza.
Il riferimento culturale di base cui Gormley si rivolge è l’Umanesimo e in qualche modo ne critica le certezze ideologiche che hanno posto l’uomo al centro di tutto, ricordando che i secoli della magnificenza rinascimentale hanno prodotto anche ostilità alla dignità dell’uomo e discriminazione seminando terrore. A Firenze la storia è esemplificata con la nemesi della scultura.
Il corpo nella scultura fiorentina è stato rappresentato in modo straordinario e la reinterpretazione che Gormley ne dà è di renderlo meno come un oggetto e più come un elemento catalizzatore, un contenitore, un luogo per meglio comprendere lo spazio che ci circonda. Se Michelangelo, Bandinelli e Cellini ponevano il corpo come elemento centrale e insuperabile, Tino da Camaino e Donatello esprimono, in alcune opere, la consapevolezza della vulnerabilità del corpo umano. Posizione che, per certi aspetti, si collega al fallimento dell’Umanesimo.
L’arte e la guerra erano i due modi di esprimere l’egemonia rispetto ad altre città in epoca rinascimentale e il Forte Belvedere, mai utilizzato per scopi bellici e difensivi, diventa così un elemento emblematico di architettura storica. La costruzione di certi edifici ha richiesto enormi sforzi e Antony Gormley con l’installazione delle sue opere in mostra, vuole indurre il fruitore a riflettere su tutto questo e a rendere questo luogo il più aperto possibile: era un sito militare e adesso secondo Gormley dovrebbe essere un luogo che induce alla meditazione sulla storia dell’uomo.
Girovagando tra i mille anfratti del Forte di Belvedere si incontrano figure umane collocate nei luoghi più reconditi e disparati, poste quasi come ostacoli che obbligano il fruitore a fermarsi e a riflettere sullo spazio che lo accoglie e che lo circonda. Sono corpi che esprimono differenti sensazioni e stati d’animo, molteplici attitudini e reazioni psicofisiche: dalla paura alla contemplazione, dallo sforzo alla costrizione, dalla spavalderia alla meditazione. Figure che esprimono “stati della mente” e che permettono di prendere coscienza che l’uomo non è al centro del mondo, ma che è parte di esso.
Punto focale dell’esposizione, e forse anche il più spettacolare, è Critical Mass II – installata sull’ampio terrazzo che guarda la città. Si tratta di due adattamenti dell’opera del 1995 data da dodici figure antropomorfe in differenti “pose” replicate in cinque copie per un totale di sessanta sculture orientate in modo diverso. L’opera può essere considerata un “anti monumento” – nata per essere posta all’interno di un deposito del tram a Vienna come spunto di riflessione su un momento buio della storia della Germania – qui acquisisce un significato di confronto con l’Umanesimo, con la storia della città, con la continua relazione tra potere e denaro ed è un omaggio a tutte le vittime del XX secolo.
Di notevole impatto le dodici sculture poste in linea da quella accovacciata in posizione fetale a quella eretta con la testa rivolta verso l’alto quasi ad ammirare il cielo (dal cordoglio all’ossequio); mentre nell’angolo opposto del bastione gli stessi corpi accatastati quasi a ricordare le atrocità di un massacro.
L’idea di violenza e di ricerca di una salvezza oppure di sterminio e di uno scampo serpeggia in diversi punti della mostra e quasi ne diventa il fil rouge. Gli “incontri” che si fanno lungo tutto il percorso dell’esposizione sono sì degli ostacoli ma talvolta sembrano essere dei corpi umani abbandonati su un campo di battaglia o dei “fossili” (industriali) riemersi da chissà quale epoca lontana e la mente ricorre ai calchi in gesso dei corpi degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei.
Alcune opere sistemate in luoghi seminascosti ricordano episodi delle nostre realtà urbane, i senzatetto alloggiati in rifugi di fortuna come i sottopassaggi, i loggiati o altri diversi interstizi degli spazi pubblici. A questa realtà fatta di alienazione e di disagio fanno riscontro opere con posizioni scherzose e di svago come quella distesa al sole oppure quella che sembra sbattere la testa nel muro.
Enrica Ravenni
Tutte le foto © Andrea Paoletti