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17
agosto 2017
Gli ingredienti del burocrate perverso
Progetti e iniziative
Intervista a tutto tondo con Lucio Pozzi, il più ermetico degli artisti italiani. Tra fascinazioni zen, consigli sui titoli delle opere e apparente irriconoscibilità stilistica
Lucio Pozzi, classe 1935, milanese di nascita, statunitense di adozione. Sin dagli anni Sessanta ha modo di innestare sulla conoscenza dei movimenti avanguardistici europei le esperienze delle correnti americane con cui viene a contatto, tra i quali l’Espressionismo Astratto e l’Arte Concettuale. È di quest’ultima che si serve per sabotare dall’interno i canoni stessi dell’Arte e, forte dell’ondata “antiautoriale” degli anni Settanta, elabora una produzione che nell’apparente irriconoscibilità trova la sua cifra distintiva.
Servendosi di uno schema contente ingredienti desunti dalla pittura (Inventory Game) nonché dei cosiddetti Meccanismi di traduzione (dualismo, texture, togliere e rilocare, etc.), Pozzi perviene alla creazione di lavori che, nello spaziare dal rigore minimalista alla figurazione mimetica, fino a una soffocante decorazione, utilizzano i media più disparati: dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla performance, etc. La sua attuale personale presso la RizzutoGallery di Palermo è stata occasione per intervistarlo.
L’Inventory Game mi ha fatto sovvenire, per simile approccio combinatorio ma opposto principio metodologico, la cosiddetta matrice stilistica elaborata da Arthur Danto nel suo saggio “Dopo la fine dell’Arte”. Con tale strumento il filosofo cerca, tra le varie cose, di classificare le famiglie di opere di Ad Reinhardt. Se il tuo Inventario, a partire da singoli ingredienti, induce e apre a infinite possibilità per la creazione di nuove opere, la matrice di Danto, per converso, deduce da opere già finite i vari componenti utili alla compilazione delle classificazioni. Concordi?
«Sì. Arthur Danto lavorava molto sul contesto. Eravamo amici ma ero in parte in disaccordo nei suoi confronti. Lui teneva molto alla visualità, al fine però di conoscere le ragioni che stavano dietro al visibile, le elaborazioni concettuali. Secondo me, a un certo punto, molti artisti in Europa, ma soprattutto in America, avevano certo dato troppa importanza alla forma a spese del contesto; Danto invece ha fatto parte dell’ondata opposta che ha privilegiato il contesto a scapito della forma. Ad ogni modo, lui era una persona molto capace e sicuramente, pur non esplicitandomelo, avrà capito che non ero d’accordo con lui».
Lucio Pozzi, vista della mostra, RizzutoGallery di Palermo
Nella tua opera, fondamentale è il ruolo dello spazio e la relazione che in esso si instaura tra opera e pubblico, in una fruizione che varia a seconda della distanza dall’opera ma che in ogni momento gode del massimo dell’intensità. Stanti queste premesse, qual è il tuo concetto di Estetica? La vedi in chiave partecipativa, multisensoriale, come lo stesso etimo del termine suggerisce?
«Quando si pongono questioni così difficili da inquadrare, io torno al mio piccolo Gioco dell’Inventario. Il traffico dello spettatore è un ingrediente fondamentale della mia arte; per esempio i Level Group sono realizzati in modo che si vedano in maniera diversa in base all’angolatura, alla luce e alla distanza. È una matrice che per me è ancora valida anche quando faccio i quadri coi fiori e le forme astratte. Considerare l’ambiente e il flusso degli spettatori come degli ingredienti della mia opera mi permette quindi di semplificare la questione e, al contempo, legittimarla. Ridurre il tutto a ingredienti mi ha liberato dall’ossessione di spiegare e capire troppo».
A proposito del binomio “nascondere/rivelare”, centrale, per esempio, nella performance Paperswim, ritieni che occultando si finisca, per converso, col mettere ancor più in luce?
«Sì, sono d’accordo. Sono tutti ingredienti, inclusi il nascondersi e il rivelarsi. In Paperswim contano anche i tempi, i rumori, il suono e l’odore della carta. Dell’ultima Paperswim alla Dia Art Foundation di New York che, come quasi tutte le mie azioni, dura otto ore, come quelle del lavoro d’ufficio, hanno fatto un video di circa due ore. L’unione degli opposti sta anche nella solitudine che percepisco al momento dell’azione: sia esaltante che malinconica».
L’importanza che conferisci alla texture e il compiacimento nell’osservazione delle “particelle di un sasso di granito” o dell’”intreccio dei licheni su una pietra”, possono essere accostati all’esperienza vissuta da Max Ernst al momento della scoperta/invenzione del frottage, ovvero di potenziamento delle facoltà percettive dell’osservatore? In entrambi i casi si apre uno scenario corpuscolare, prima ignoto
«A proposito della texture, un critico italiano ha avuto il coraggio di coniare un neologismo e usare il termine tissura per arginare il continuo prestito lessicale dall’Inglese. Le tissure mi appassionano, specie le texturologies di Jean Dubuffet e le calligrafie di Mark Tobey, così come tutto ciò che è brulichio o dispersione. Quindi sì, un potenziamento delle facoltà percettive come quello garantito dallo zoom di un microscopio o di un telescopio. Tutto è un groviglio, come le molecole, e si percepisce un senso di completezza nell’accumulo, specie di forme organiche».
Si tratta dello stesso accumulo/horror vacui che sta alla base dei Crowd Paintings?
«Sì, esatto, dalla tissura derivano i Crowd Paintings, nati casualmente quando stavo facendo molti Rag Rug Paintings, che volevo finire in breve tempo per farne una mostra. Stancatomi, ho preferito fermarmi per un momento, per evitare di farne una regola accademica personale. Una sera, così, presa una tela, ho fatto con rabbia tutto l’opposto dei Rag Rug: invece di colore spesso, uno strato fino; anziché astrazione, riempimento figurativo. Liberato lo spirito, vengono fuori cose inaspettate».
Hai mai sperimentato il dripping, dato che ti interessa la dimensione performativa?
«No ma certe volte, quando lavoro sul muro, se viene una colatura è possibile che la lasci in omaggio alla tradizione americana degli anni Quaranta, anche se in realtà il dripping nasce dalle antiche ceramiche cinesi e poi giapponesi. Per noi moderni, specie la variante Zen di queste ultime, nell’applicazione del cui smalto era calcolata perfino ogni minima colatura, ha generato molta arte. La loro estetica si è trasferita ai francesi e ha poi influenzato gli americani. È dagli Zen che aveva imparato Masson, al quale poi hanno guardato Pollock, Mark Tobey, etc».
Lucio Pozzi, vista della mostra, RizzutoGallery di Palermo
Qual è il tuo rapporto con la filosofia Zen?
«Non ho approfondito molto questa filosofia ma ne sono affascinato, avendone captato quel che ho potuto. Mi sento molto vicino anche alla sua declinazione più grottesca, esuberante e calligrafica. L’anno scorso ho realizzato per una mostra privata un grande lavoro brulicante del tipo Crowd Painting da esporre insieme a un Level Group. Il committente, aspettandosi esclusivamente un’arte riduttiva, ha cancellato la mostra. Non aveva compreso cosa fosse per me lo Zen: una pienezza del vuoto. Per aiutarlo, gli mandai la koan di una monaca che tentava di imparare lo Zen ma invano. Un giorno, il secchio colmo d’acqua che era solita portare con sé, nel quale si rispecchiava la Luna, si ruppe e così la Luna scomparve. In quest’occasione la monaca ebbe accesso allo Zen».
Qual è la genesi dei titoli delle tue opere?
«Sono parole o frasi che sgorgano spontaneamente quando concludo un lavoro, in base allo status emotivo. Evocano pensieri, sensazioni e le accosto alle opere per associazioni sonore. A volte, invece, chiedo consiglio a un mio amico alchimista, Mario Diacono, al quale descrivo il lavoro e i miei sentimenti e lui ne deriva titoli riferiti alle cose più disparate: un verso di William Blake o una definizione ermetica, etc. Per conto mio, cerco parole di culture lontane dalla mia. Per esempio dipinti recenti portano i nomi di isole esquimesi; ad altri, che mi ricordano i portali sacri giapponesi Mon, ho dato nomi di templi».
La totale assenza di significato di eventuali etichette in epoca postmoderna è una condizione a te gradita, dal momento che il tuo lavoro non può essere incasellato in rigide definizioni?
«Se le etichette sono strumenti tassonomici, possono essere utili; se invece sono regole impositive – perfino ribellarsi a esse può sottomettere alla loro rigidità – diventano degli accademismi. C’è un istinto in noi alla classificazione, l’ho verificato con la Matematica di gruppo che mi ha aiutato ad accettare le etichette, quando funzionali, senza subirle. Io stesso elaboro le mie tassonomie, che poi finiscono col sovrapporsi. Mi diverte essere un burocrate perverso!».
Lucio Pozzi, vista della mostra, RizzutoGallery di Palermo
Come hanno reagito inizialmente i galleristi e i collezionisti di fronte all’apparente mancanza di riconoscibilità dei tuoi lavori?
«Ho avuto la fortuna di essere sostenuto da John Weber, in un periodo in cui i miei lavori ben si sposavano con la sua ricerca ovvero cosa c’è dopo il Minimalismo e il Concettualismo. Weber mi ha sempre difeso strenuamente, specie non in mia presenza, da alcuni miei detrattori dell’epoca. Anche Leo Castelli, che stava nel suo stesso edificio, ha avuto molto riguardo nei miei confronti, includendomi in sue mostre fuori dalla galleria. Una volta è venuto a una mia mostra in un’altra zona della città dove operavano delle gallerie sperimentali. Poi, a un certo punto, gestiva un enorme spazio espositivo in una cantina. Ero reduce da una grande mostra importata da New York da un importante museo tedesco a Bielefeld: quadri di varie dimensioni, sculture, foto di performance, etc. Come un’eco di essa, John Weber organizzò un’esposizione simultanea in tre gallerie, fra cui il grande seminterrato di Castelli. Si vendettero delle opere ma ricevetti molte critiche, spesso frutto di invidia. Due anni dopo, però, un critico, riferendosi a quella mostra parlò di grande successo e ne fui proprio stupito. Ero il primo a fare una mostra in tre gallerie, cosa che in seguito molti artisti avrebbero fatto altrove. Ero al mio secondo Provocation Show. Ricordo pure i piccoli collezionisti Vogel, che posseggono quattrocento miei lavori. Come tanti dei loro artisti, quando mi sentivo pieno di dubbi, ricorrevo a loro. Erano come degli zii protettivi, così come Milton Brutten, un altro piccolo collezionista di Philadelphia. Per il resto, ero molto criticato dai galleristi ma anche dagli artisti e lo sono ancora. Spesso dicono “What’s Lucio about?”, hanno bisogno di definire un tema che incornici l’opera di un artista, il che è una “malattia” diffusa in America, a New York soprattutto, e da lì ha invaso il mondo».
Tale attitudine prosegue, per caso, sulla scia della genealogia del Cubismo e dell’Arte Astratta tracciata da Alfred H. Barr nel 1936, come nota Marcello Carriero, curatore dell’attuale tua personale presso la RizzutoGallery?
«Sì, esattamente. All’epoca di Barr bisognava difendere certe idee contro certi pregiudizi ma molto presto il mercato dell’arte, essendo dominato dagli standard americani, è diventato un’accademia soffocante. Come spesso accade, quello che è vitale diventa monotono».
Eliana Urbano Raimondi