La sensazione di essere nell’acqua, di spostarsi da un punto all’altro di una laguna che è luogo chiuso e aperto al contempo, il suono rumoroso del vaporetto che prima di attraccare inverte la marcia e, per approssimazione, si appoggia all’imbarcadero con un colpo secco di legno e metallo, lo scricchiolio della cima in canapa lanciata alla bitta che prelude alla discesa dei passeggeri. Tutto questo all’isola della Certosa, un luogo in cui la fermata va chiamata, perché non sono in molti a scendere lì, a meno che non ci sia un motivo, una contingenza in grado di renderla contesto all’incontro.
Questo accade a un gruppo di ragazzi della cosiddetta Generazione Z, quel magma eterogeneo che va dai 16 ai 25 anni, un’età di esplorazione e passione, di ribellione e contrasti. Un’età che in quest’anno e mezzo di pandemia ha dovuto reinventarsi la distanza per creare prossimità anche nell’impossibile foresta di restrizioni che si sono affastellate per via del virus. Questo accade al gruppo che ha deciso di aderire al quarto appuntamento di “SuperaMenti. Pratiche artistiche per un nuovo presente”, lanciato dalla Collezione Peggy Guggenheim insieme a Swatch Art Peace Hotel. Dopo Jan Vormann, Alice Pasquini e Cecilia Jansson tocca a S.O.B., Stefano Ogliari Badessi, artista cremasco che attraverso il medium dell’installazione fa convergere mondo onirico e rispetto per la natura, indagine di sé e ambienti immersivi in cui lo spettatore possa riconoscere un’alterazione della percezione propria e del contesto che lo ospita.
In una corsa a ostacoli che ha visto la necessità di ridefinire costantemente l’idea dei laboratori, nati prima che il Covid modificasse le leggi del mondo, la Collezione Peggy Guggenheim ha quasi precorso i tempi, offrendo un’ancora di appiglio proprio alla generazione per cui è stato forse più difficile sopportare l’asfissia relazionale imposta dalla pandemia. Laboratori che si sono dovuti svolgere interamente da remoto o in forma integrata, tenendo il passo dei DPCM e costringendo tutti, artisti operatori e fruitori, ad accettare la sfida della più feroce flessibilità.
La caparbietà però ha premiato, consentendo di arrivare a metà maggio con un’azione simbolicamente densa di connotazioni, una boccata d’aria fresca per tutti coloro che hanno partecipato al progetto. Questo si respira domenica, 16 maggio, quando vengono varati gli occhi galleggianti di S.O.B., nati da una tre giorni di lavoro sul campo, rigorosamente scanditi dall’osservanza delle regole e dal desiderio di vivere la relazione.
Esperienza è la parola chiave per Stefano Ogliari Badessi, che si è prestato alla sfida di creare un’opera collettiva, di lasciare che altri ragazzi mettessero mani e creatività al servizio di una visione, stimolandoli concettualmente ma, soprattutto, facendoli lavorare con chiodi e martelli per dar vita ad un’opera che è diventata obiettivo comune, nei giorni della realizzazione. Francesca Clamor, una delle ragazze che hanno partecipato al laboratorio, ne parla con entusiasmo, sottolineando l’effetto di crescita personale e umana a cui l’esperienza l’ha portata. Dagli stimoli ricevuti on line sul concetto di galleggiamento, sulla simbologia dell’occhio, sull’ambiente e sul nomadismo insito nell’idea stessa dell’opera, alla realizzazione pratica, la parte più bella, sottolinea, il momento dell’incontro e del lavoro comune, quel momento in cui accade che delle persone, dei perfetti sconosciuti fino a pochi istanti prima, diventino un team che ha l’inderogabile necessità di portare a termine un progetto reale. Questa è la magia che a volte nell’arte si crea, semplice e perfetta, l’urgenza di dover portare a termine una mission indispensabile proprio per il suo essere effimera, fatta di materia spirituale e di linfa vitale.
Il fuoco di tutto questo, la necessità di dare occhi “che guardino qualcosa” dalle profondità di una laguna da animisti, in grado di collocarsi nel consesso degli umani, sta proprio qui, nella semplice creazione di un varco di possibilità in cui la vita in fieri di un gruppo di giovani incontra l’alterazione della norma che l’artista, in quanto tale, porta con sé. L’opera galleggiante di S.O.B. allora acquista tutto il suo significato, un lavoro che forse andrebbe vissuto da dentro più che osservato da fuori, due piccole costruzioni che sono come delle iurte galleggianti, ambienti quasi sacri in cui poter vivere un contatto diretto con ciò che trascende l’umano.
L’entusiasmo che traspare dalle parole di Carlo Giordanetti, CEO Swatch Art Peace Hotel, si affianca alle considerazioni intense di Karole P. B. Vail e alla gioia di tutto lo staff della Collezione Peggy Guggenheim. La consapevolezza è quella di aver attraversato un tempo complesso, ma di essere riusciti a far fronte a quel desiderio di dare stimoli e strade possibili alle nuove generazioni, che solo grazie ad un’intensa rete di proposte rivolte a menti e corpi, possono assorbire un po’ della forza che l’arte, inevitabilmente, è in grado di veicolare quando viene vissuta e non solamente osservata.
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