“Le immagini di seconda mano possono produrre emozioni di prima mano”. Questa è una delle lapidarie sentenze di Marlene Dumas (Johannesburg 1953), un’artista che non ha mai dipinto dal vero nonostante le sue tele siano un appassionato omaggio alla realtà. Dalla fattoria di Kuisrivier (un’area semi rurale nella periferia di Cape Town) la Dumas nel 1976 emigra in Olanda, nella liberale Amsterdam, dove tuttora vive e lavora. Le sue tele sono disturbanti ritratti di amici, amanti, bambini o personaggi dello star system che l’artista preleva da polaroid amatoriali, dai tabloid o dalle riviste pornografiche, sono innumerevoli i volti e i corpi che riempiono i muri della Tate Modern che dedica una ricca retrospettiva a questa artista che sembra voler provocare il mondo dell’arte con le sue immagini sospese fra innocenza e perversione (fino al 10 maggio).
“The image as a burden” (L’immagine come peso) è il titolo della mostra ed è anche il titolo di un piccolo olio su tela del 1993 in cui un uomo porta sulle braccia il corpo di una donna. L’immagine non ha nulla di romantico, anzi, al contrario il primo pensiero è che la donna sia morta perché il suo corpo così abbandonato sembra essere eccessivamente pesante, l’uomo ha un’espressione attenta e tutto sommato amorevole, ma quel corpo è un peso, un fardello. L’uomo è dipinto di scuro mentre la donna, con la sua veste immacolata, spicca sullo sfondo nero del dipinto. Amore e morte, vita e sessualità, lascivia e innocenza inesorabilmente si sovrappongono, si intrecciano e ci avvolgono mentre si procede sala dopo sala attraverso il percorso creativo di quest’artista così scandalosamente e profondamente umana.
Il filo conduttore sembra essere la morte ma anche la passione, e la religione sembra sempre intrisa di una non celata sensualità ed è incredibile quanta vita ci sia nei volti di Marlene Dumas anche quando dipinge la morte e quanto siano conturbanti quei corpi nudi anche quando si cimenta con le immagini religiose, come nella serie di metà anni ’90 delle Maddalene che hanno il volto e il corpo della super model Naomi Campbell. Maria Maddalena è il polo opposto della vergine Maria, non è né vergine né madre, anzi, secondo i vangeli apocrifi, amò Gesù e visse con lui. Convenzionalmente è sempre rappresentata estatica o melanconica per sottolineare la sua santità, mentre la Dumas la dipinge frontale, con il capo eretto e i lunghi capelli che coprono la sua nudità eroica ed erotica. Naomi e la sua bellezza di ebano ritornano in un’altra opera, il dittico Great Britain della metà degli anni ‘90 in cui il suo corpo nudo e longilineo su cui spicca il bianco di un perizoma triangolare è giustapposto al rifinitissimo “ritratto di corte” di Princess Diana, bionda e regale nel suo prezioso vestito di sera rosa pallido. Una giustapposizione intrigante dell’idea di bellezza e di glamour, due icone femminili che rappresentano due mondi solo apparentemente lontani.
Quella di Marlene Dumas è una pittura femminista, in cui il corpo della donna e i suoi genitali diventano strumenti di presa di coscienza e di lotta ed è anche una pittura decisamente politica. A questo proposito davvero toccante è l’opera composta da decine di volti in bianco e nero di letterati, scrittori e scienziati gay, fra cui Alan Turing che fu costretto dal governo britannico a sottoporsi alla castrazione chimica, un’opera realizzata per la Manifesta di San Pietroburgo dell’anno scorso, come memoriale di denuncia delle politiche omofobe di Putin. Uomini di spalle che pregano davanti al muro del pianto in Israele (The wall, 2009), il ritratto di Osama Bin Laden (Osama, 2010), Pauline Lumumba, vedova di Patrice Lumumba primo ministro del Congo nel 1960, che cammina a seno nudo nelle strade di Leopoldville in segno di lutto per il marito morto assassinato per le sue idee politiche anticolonialiste, antimperialiste e filocomuniste (The widow, 2013) o la struggente Woman of Algiers (2001) in cui un’adolescente nuda con i seni e il pube coperti da un rettangolo nero è tenuta per le braccia da due uomini di cui si vedono solo le mani. Quest’opera nel 2013 viene rivisitata diventando The Trophy in cui si palesano i corpi dei due militari che mostrano la loro preda come fosse un trofeo.
Questa mostra così densa e ricca di immagini solide e materiche è il perfetto contrappasso alla nostra attuale era digitale dominata da immagini effimere e immateriali, è un omaggio alla potenza e alla forza della pittura di un’artista che è una delle figure più interessanti e visivamente conturbanti del panorama artistico contemporaneo.