Grande
multinazionale della cosmetica interviene a sostegno dell’arte. Sceglie la
Biennale come campo d’investimento e decide di significare il proprio
contributo – a livello d’immagine – producendo una tavola rotonda sul tema
della bellezza. Crea un documento, definito
pamphlet, ove raccoglie preventivamente i
punti di vista dei convitati, poi riuniti in un
hic lagunare e un
nunc autunnale, dove ci si propone di
affrontare diffusamente l’argomento.
Questo
in sintesi è
T3,
evento che Beiersdorf ha proposto il 14 ottobre per dare senso alla comparsa
del (proprio) logo Nivea in Biennale, trasmettendo con logica teutonica una
specie di proprietà transitiva dell’estetica, secondo la quale se l’arte ha a che
vedere con l’idea di bellezza e l’azienda pure, allora si può pensare che
l’azienda si rivolga all’arte e chiuda il cerchio.
Al
bello ci hanno dunque pensato loro. Ora passiamo al buono, al brutto e al
cattivo di un’iniziativa che offre qualcosa su cui riflettere.
Il
buono è chiaramente la sponsorship, la scelta di buttarsi sulla cultura
piuttosto che su qualsiasi altro settore del non profit. Ma il buono è anche il
contributo di almeno una parte dei relatori. Federico Vercellone (che sballo
dev’essere poter dire che di lavoro si fa “
l’esteta”: lui può) recupera con pungente
spirito d’osservazione il senso di euritmia proprio dell’antichità e a questo
cerca di assegnare il carattere trans-temporale dell’idea di bellezza come
immagine più fedele dell’equilibrio. I
l bello è tale perché armonico, ordinato,
netto. Ed è così che il Novecento – distrofico, disordinato, disincantato – è
il secolo che con
Barnett Newman si propone di distruggere l’idea stessa di bellezza. Ma
ecco che, camminando a ritroso, la progressiva idiosincrasia del modo di vivere
occidentale nei confronti della bellezza nasce addirittura con Cristo, con la
negazione del senso estetico classico.
Giuliano
Zanchi, teologo e direttore generale del Museo Bernareggi di Bergamo, fruga
ancora più nel profondo, arrivando a discutere della bellezza come esperienza
originaria, fatto sociale totale che necessita di trovare una sua espressione fenomenica.
Ieri in maniera preponderante con l’arte; oggi in modo meno esclusivo, in
ambiti tra loro anche dissonanti.
C’è
anche il brutto, però. Ed il brutto è un po’ la noia degli altri interventi,
poco incisivi nel ripetersi e rincorrersi lungo il filo del rinnovamento della
bellezza attraverso il perseguimento della sostenibilità, in una forma di
new
age millenarista
francamente un po’ triturata. Brutto che scatena nel pessimo quando si legge
(l’autore non ha partecipato all’incontro,
c’est la vie) l’intervento davvero
superficiale di Giuliano da Empoli,
neo-assessore alla cultura di Firenze. Niente di nuovo,
niente di che.
Infine,
il cattivo: ta-dàn, Francesco Bonami. Eh già. Viene indicato dagli
organizzatori come l’eminenza grigia chiamata a dettare l’agenda dell’incontro;
il carrista che deve guidare il
think tank attraverso il campo minato di una spinosa ma succulenta
chiacchierata sull’estetica. Impacciato, in evidente stress da
overbooking, non porta nessun tipo di
contenuto: conduce in porto la barca con l’acquiescenza del miglior Bruno Vespa,
lasciando che i relatori riassumano quanto scritto nel pamphlet (vabbé, ma
allora basta leggerlo!) senza domande o contraddittori, frenando anche gli
sparuti interventi del pubblico.
Peccato.
L’idea era bella. I sostenitori dell’arte meritano forse maggior sostegno.
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"l'opera" è quel tavolo con operatori svogliati. Un altro segno di stasi e stagnazione. Un 'attualizzazione del cubo minimale.