Basta andare un centinaio di chilometri più giù, oltre il sud-est milanese, e il paesaggio cambia. I campi si acquattano, i colori intiepidiscono. L’auto, incastrata nel flusso dell’A1, prende un assetto più rilassato. Un assetto disteso, da viaggio. Passata Piacenza comincia il primo tratto dell’Emilia. L’ultima bassa pianura, appiattita dai fiumi vuoti e sormontata dagli stabilimenti.
Lì in mezzo ci si mette un attimo a perdere la civiltà del contemporaneo, e a far ritorno all’Età della Terra. Quando, prima di saper fare si faceva. Ad arte. Un’età in cui i vissuti degli oggetti e le storie degli uomini si raccontavano. A vicenda.
Ad Ozzano Taro, infatti, a qualche chilometro da Parma, ancora oggi, gli oggetti parlano con voce d’uomo. Il Museo Guatelli, per chiunque voglia ascoltare, è diventato una storia piena di innumerevoli altre storie. Una rete tesa a trappola, pronta ad accalappiare immaginari.
Il suo ideatore/curatore/inventore, Ettore Guatelli (Ozzano Taro 1921- Ozzano Taro 2000), ha letteralmente ridisegnato le pareti di questo grosso podere, trasformandole. L’instancabile proprietario ha dedicato un’intera esistenza a fregiarne i muri, fino a farli sparire. Ora sono nascosti, irretiti e decorati di Cose. La provenienza degli oggetti è per lo più nostrana, appenninica, a volte lombarda. La caratteristica che li accomuna è l’ammontare dei segni che si portano addosso. Ruggine, macchie, rattoppi, contaminazioni e ingegno manuale. Non importa l’appartenenza all’aura Perfezione, o all’effimera Novità, quel che conta è la bellezza balsamica delle stratificazioni. Ogni oggetto in mostra, infatti, sopravvive alle tracce olocaustiche subite, diventandone allo stesso tempo contenuto e contenitore. Logorii, polveri, ricami di muffe e assemblaggi fortuiti costituiscono necessarie grazie.
Da tempo, questi spazi portano il nome di “museo dell’ovvio”, “museo del quotidiano”, alcuni tendono ad omologarli ad un museo della civiltà contadina. Ma su un cartello, a lato del sentiero di ghiaia che porta all’ingresso, è indicata la scritta Bosco delle Cose. Niente di più azzeccato.
Casa Guatelli è una selva materia. Contiene circa 60.000 oggetti, non ancora del tutto catalogati, che strusciano l’occhio senza interruzione. Davanti a chi guarda scorrono utensili di ogni tipo. Subbie, martelli, pinze, lime, strumenti musicali, utensili, giochi, scatole, scarpe, pentole e indecifrabili senzanome. Ogni serie, appesa ai muri, rotea, ondeggia e arzigogola, disposta a raggiera, in modo da occultare completamente l’impianto architettonico-strutturale della cascina. Gli ambienti, così “accumulati” e disposti, fanno perdere la forza delle identità, indebolendo l’energia che quotidianamente crea connessioni con i dettami delle funzioni d’uso.
Al Museo Guatelli non esiste più un fienile, non più una stanza da letto, non una soffitta. Di quel che c’era, e c’è sempre stato, è rimasto un impianto fantasma. Adesso tutto è imbottito da manufatti, rarità introvabili. Nobili povertà, cose per fare le cose.
La ripetizione seriale e il gioco vorticoso dell’accumulo, pian piano, hanno ingerito tutti gli spazi e i loro significati reali. La collezione, così, diventa una sorta di operazione linguistica, un vernacolo del quotidiano che fa della forma la propria filologia e dell’invenzione il proprio etimo. La ripetizione e il susseguirsi degli oggetti fa perdere l’orientamento, ammutolisce e sfianca, investendo e poi
Quando ci si addentra nei dettagli, la messa a fuoco cambia. Si passa dal vedere macchie di materia a percepire stralci di vite umane. E sotto la paziente egida della guida, si ritrovano curiosità inattese. Ci sono scatoline per tenere da parte il legno grondante, roso dai tarli. Le signore di campagna, raccogliendo la segatura finissima, si incipriavano la pelle sognando il borotalco. Ancora, si trovano ramponi da allacciare alle scarpe, con puntali metallici altissimi. Con quelli si aprivano i ricci delle castagne quando venivano stese in fienile, pigiando i piedi sul pavimento.
Sarà la vigilanza sensibile di chi visita ad andare oltre l’eccezione puntuale degli oggetti. Le arti locali, nostrane, devono fare specchio al contemporaneo con sensibilità e visione. Queste arti sono e rimangono una calda lingua muta della collettività, vere parti attive dei nostri cromosomi. Solo con esse le cose sciolgono in flussi, mischiando rituali, tradizioni, credenze, arguzie, spiritualità e semplicità. Qualità che fanno del fare una cosa in mezzo alle cose.
ginevra bria
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