Perché “107”?
107 è il numero civico di una delle entrate di Progetto 107, ma ha anche un’ottima resa dal punto di vista grafico. Inoltre, è un marchio che può essere condiviso con chiunque lo desideri.
In origine gli spazi occupati dalla Fondazione 107 erano capannoni industriali. Quali sono stati i tempi e i modi degli interventi? Come si è passati da una zona dismessa a un progetto all’avanguardia?
Il progetto si articola in due fasi, la prima delle quali è iniziata nel 2007, sulla base di un’idea formatasi già nel 2002. I capannoni, di proprietà dell’Immobiliare Sansovino, erano frazionati e affittati ad attività artigianali e industriali, legate al mondo dell’automotive; non sono più stati locati dal momento in cui il mercato ha espulso queste aziende. E, successivamente, il progetto ha preso corpo. Il lavoro è stato affidato allo studio dell’architetto Maurizio Zucca, che in due anni ha sviluppato il centro della creatività, laboratori-loft, con particolare attenzione al risparmio energetico e all’utilizzo di tecnologie a basso impatto ambientale, e uno spazio espositivo di 1.500 mq, che recupera il sentimento del luogo anche attraverso la conservazione dell’archeologia industriale degli edifici, a memoria di ciò che sono stati il quartiere e il suo sviluppo.
A seguire cosa si realizzerà?
La seconda fase, prevista entro il 2011, è orientata a ulteriori laboratori-loft, che si sviluppano intorno a un chiostro di distribuzione, con aree verdi, perfino un giardino pensile con un bosco di ulivi, e due piani di parcheggi interrati. Si tratta dunque di un work in progress, ma si è deciso di procedere già all’apertura al pubblico, anche se, al momento, siamo ancora in pieno cantiere. Siamo molto vicini alla Stadio delle Alpi, dov’è stato avviato il Progetto Juventus, che caratterizzerà l’intera area.
Su quali finanziamenti può contare la Fondazione?
La prima iniziativa è stata resa possibile grazie a finanziamenti privati, anche se gli enti pubblici hanno manifestato apprezzamento e Comune e Provincia hanno garantito il loro patrocinio. Tra gli obiettivi che ci proponiamo, è primaria la collaborazione tra mondo imprenditoriale e cultura, in modo da far scaturire una nuova comunicazione, che introdurrà anche in modo naturale prodotti negli spazi espositivi.
Sei un artista, con un percorso di ricerca che prosegue da vent’anni. Quali sono state le motivazioni che ti hanno indotto a un’elaborazione così complessa e ardita?
Tutto è scaturito dalla combinazione di diverse situazioni, a partire dall’idea di una città in continua trasformazione. Il mio auspicio è che nascano tante altre iniziative simili, che riescano a fare di Torino un unicum capace di attrarre operatori da ogni luogo, così da valorizzarla al massimo. Continuo con il mio lavoro di artista e, così, con la mia ricerca.
Chi ti affiancherà nella Fondazione?
Questa iniziativa è concepita come un work in progress. È previsto un comitato di esperti, che però potrà essere modificato di volta in volta, a seconda dei progetti. Mi piace definire Progetto 107 come spazio aperto a ricevere proposte da chi ha una bell’idea nel cassetto.
La Fondazione si presenta con una mostra sull’arte post-sovietica, dal titolo emblematico Ad est di niente. Particolarmente interessante, perché mai prima d’ora è stata proposta a Torino una rassegna così completa sull’arte asiatica…
Ho scelto gli artisti centroasiatici per diverse motivazioni. Lo stimolo è nato tempo fa, quando mi sono casualmente accorto che i temi di mio interesse, dunque occidentali, erano comuni anche ai loro, seppur sviluppati con occhi differenti. Gli artisti selezionati non sono ancora globalizzati; hanno conservato una forte individualità. La mostra abbraccia le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia, tutti territori che hanno avuto contatti con la Russia sovietica. Alcuni dei trentatré artisti hanno partecipato alla Biennale di Venezia; quest’anno sarà presente Oksana Shatalova. La mostra vuol essere altresì un omaggio a Rustam Kalfin, padre dell’avanguardia e di tutti gli artisti centroasiatici, deceduto di recente.
Come pensi possa integrarsi questa Fondazione nel tessuto di una città stimolante ma difficile come Torino?
Non mi pongo troppe domande: l’importante è continuare ad avere qualcosa da dire e attivarsi per riuscire a finanziare i progetti. Mi auguro che il futuro riguardi soprattutto obiettivi per la città, che Torino continui sulla strada di capitale del contemporaneo e ne diventi indiscussa protagonista. Il percorso non deve comunque scordare il grande passato industriale, anzi deve tesaurizzarlo e difenderlo, dal momento che è stato il tessuto connettivo che ha fatto di Torino una “città laboratorio”.
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