Il castello interiore di Gian Maria Tosatti

di - 10 Gennaio 2017
Dal 2013 al 2016 Gian Maria Tosatti ha vissuto a Napoli, dove ha realizzato un poderoso percorso artistico, mistico e sociale nel ventre della città. Questo complesso lavoro di riflessione sul capoluogo partenopeo, visto come una grande metafora dell’essere umano, è stato realizzato attraverso interventi site-specific in alcuni edifici abbandonati in cui è rimasto vivo il genius loci che l’artista rivitalizza attraverso dei potenti, anche se talvolta minimi, scarti percettivi.
Sono sette le tappe del percorso ascensionale mediato dalla struttura in sette stanze del Castello Interiore scritto nel 1577 da Santa Teresa d’Avila che, utilizzando la metafora del castello, dimostra come Dio esista all’interno della nostra anima. La vita è come un castello, un castello di nostra proprietà, al cui interno c’è la camera da letto dove il Signore, padrone del castello e nostro amante, ci attende. Ma noi siamo fuori del castello, alle sue porte, a chiedere l’elemosina, senza comprendere che quel castello è nostro e vi possiamo entrare come e quando vogliamo. Viviamo di carrube fuori del castello eppure ne siamo i proprietari. Questo in sostanza il monito che, attraverso i suoi scritti ci rivolge la Santa, ogni uomo ha la facoltà di entrare nel castello solo se lo vuole. Il castello interiore descrive quindi un viaggio spirituale, il cui scopo è l’unione d’amore con Dio.

Per Gian Maria Tosatti le sette tappe del suo percorso di elevazione corrispondono ognuna a una stanza, dalle più periferiche fino a quella centrale, quindi dall’inferno della prima tappa fino al Paradiso della sesta e alla Terra dell’Ultimo Cielo (la settima stanza), che rappresenta la possibilità dell’illuminazione.
Questo gigantesco e specialissimo dispositivo è stato presentato in una mostra al Madre curata da Eugenio Viola, che ha anche curato tutte e sette le tappe del progetto. Operazione difficile, dato che non era scontato che la potenza del dispositivo visivo site-specific potesse essere altrettanto efficace negli spazi asettici di un museo di Arte Contemporanea, e invece questa personale (la prima dell’artista in un museo), nata un po’ come un azzardo, si è rivelata un’operazione vincente e il “sudario dell’esperienza” (per riferire esattamente le parole dell’artista) che occupa il secondo piano del Madre riesce a restituire l’essenza di un percorso che da intimo diventa collettivo. Questa personale di Tosatti (fino al 20 marzo) è quindi una mostra di resti, una specie di Sindone del progetto, ed è presentata divisa in sette stanze (come le sette tappe dell’ascesa). In genere i dispositivi messi in scena da Gian Maria Tosatti nei fatiscenti e affascinanti palazzi in cui di volta in volta decide di intervenire sono sempre irriducibilmente performativi, si entra da soli per potersi perdere, anche con un certo timore, nei meandri delle stanze, mentre al Madre, per la prima volta, la fruizione non solo è di gruppo ma tutto il percorso ascensionale è riassunto in un infilata di otto stanze una di seguito all’altra. La prima, infatti, è costituita da un prologo nella project room all’entrata del museo in cui l’artista ha portato il suo studio in modo da rendere visivamente concreto lo spazio proiettivo in cui ha preso forma il suo percorso artistico e teologico. In mostra, oltre al pavimento dello studio, sradicato e installato al centro della sala espositiva, anche una serie di polaroid in cui delle delicate incisioni di luce rischiarano il buio dell’immagine mostrandoci le varie tappe del percorso ascensionale in una dimensione decisamente intima. In un angolo è esposto il diario di tre anni di lavoro mentre in una saletta adiacente c’è il film-documentario, totalmente privo di intenti narrativi, che fornisce, grazie anche all’audio originale, una prospettiva interessante del “dietro le quinte”.

Prima di entrare nella sala che racconta la prima tappa, “La Peste”, l’artista ha voluto fare una sorta di invocazione alle Muse, come nei poemi antichi, e quindi rendere omaggio a Joseph Beuyes che è l’artista seminale che lo ha accompagnato nei tre anni del percorso. Ogni sala è un dispositivo narrativo, infatti, la mostra può essere letta con il doppio binario visivo e testuale. “La Peste”, la prima tappa presentata nella Chiesa abbandonata dei SS. Cosma e Damiano, è ben rappresentata dall’organo che conserva la sua potenza visiva anche decontestualizzato. Per raccontare la periferia dello spirito Tosatti aveva contrapposto la musica neomelodica alla raffinatezza degli spartiti di Scarlatti e al concetto che la musica colta è un balsamo efficace per lenire la malattia dell’anima, ma l’organo è qui presentato con i tasti bloccati dai vetri rotti perché in un contesto degradato la musica colta non può esprimersi.
La seconda tappa “Estate” ci racconta l’immobilismo disturbante di un’Italia Repubblicana dominata dall’inerzia. L’artista aveva scelto come luogo simbolo di una tracimante deriva morale l’Anagrafe di Piazza Dante, fatiscente palazzo ministeriale in cui ci si perdeva con i corridoi invasi dai faldoni e dalla polvere. La stanza museale, nonostante la sua bianca perfezione, riesce a comunicare allo spettatore, grazie ad un allestimento ineccepibile, lo sfascio senza speranza di un Paese alla deriva in cui tutto si sfalda sotto il peso di una burocrazia immobile e pachidermica.
La terza tappa “Lucifero”, che è anche la seconda che riflette sul concetto di peccato, mostra la banalità del male, e come questo sia spesso il risultato di un’azione compiuta pensando di fare il bene.
La quarta e la quinta tappa, rifacendosi allo schema dantesco della Divina Commedia, sono la rappresentazione del purgatorio e della fatica del vivere.

La parete di fondo, della stanza che racconta la sesta tappa è interamente occupata dalla saracinesca, crivellata da colpi di arma fuoco, che era il portale del Paradiso a Forcella. In un quartiere violento e degradato dove per i bambini gli spari di una pistola rappresentano la normalità, Tosatti ha voluto tentare un esperimento di arte sociale all’interno dei locali abbandonati di un ex fabbrica di borsette. Se il male è il non fare, il bene è certamente rappresentato dal fare e quindi il Paradiso può diventare il luogo della creazione e dell’apprendimento. Questo spazio è stato quindi utilizzato per un mese come luogo di incontro e di aggregazione. Il fantasma del lavoro che c’era e che non c’è più aleggiava nelle sale abbandonate di quel luogo ferito e maltrattato da curare e sanare come se fosse un corpo malato. I bambini del quartiere hanno fatto il miracolo, si sono affacciati, sono entrati, hanno chiesto e si sono espressi con il linguaggio dell’arte: pittura, musica, l’idea di fare un giornalino di quartiere. Il suono di un violino ascoltato per la prima volta da un bambino, considerato difficile, e che ne è rimasto incantato e vorrebbe cominciare a studiarlo è stato forse il miracolo più tangibile.
La settima e ultima tappa che parla della nostra possibile illuminazione (installazione visitabile fino all’11 gennaio, nel Convento della SS. Trinità delle monache), è rappresentata da un cumulo di vetri rotti che riflettono la luce.
Un percorso concettualmente complesso ma anche di immediata lettura grazie ad una grammatica visiva quasi perfetta che è riuscita a raccontare, senza sbavature e ammiccamenti, tre anni di lavoro e svariate migliaia di metri quadri condensandoli in otto stanze.
Paola Ugolini

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