Nel dicembre del 1956 sulle pagine nei Cahiers du Cinéma venivano pubblicati due articoli in polemica tra loro: “Montage Interdit” di André Bazin, a cui faceva da controcanto Jean-Luc Godard con l’intervento intitolato “Montage, mon beau souci”. Alle idee di Bazin, per cui il cinema per essere arte avrebbe dovuto privilegiare i piani sequenza e i campi lunghi a scapito del montaggio, Godard rispondeva affermando che il cinema aveva proprio nel montaggio la sua qualità specifica.
Tra queste due figure e tra queste due definizioni è racchiuso il titolo, il materiale e la metodologia del nuovo progetto di Eyal Sivan, cineasta israeliano nato ad Haifa, che per il primo appuntamento della nuova stagione del ciclo di incontri “Politiche della Memoria”, a cura di Marco Scotini, ha presentato mercoledì 20 marzo a Naba Montage interdit. Un progetto su Jean-Luc Godard”. Questa volta Sivan ha inaspettatamente abbandonato la forma del film e attraverso un’operazione di vera e propria decostruzione del dispositivo cinematografico, ha dato vita ad una piattaforma on-line in cui far reagire i temi e gli interessi teoretici che sono alla base della sua produzione, dai tempi di Uno Specialista (1999), Route 181 (2004), fino al recente Common State potential Conversation (2012). Montage interdit è innanzitutto un progetto sull’archivio, inteso come un dispositivo capace di imporre un ordine e generare autorità. L’interesse di Sivan per l’archivio sta tutto – all’opposto – nella possibilità della sua profanazione, così come proposta da Agamben, da attuare attraverso un processo costante di de-archiviazione e ri-archiviazione, di cui il montaggio è appunto il metodo e lo strumento principale.
Montage interdit accoglie in un’unica pagina web centinaia di frammenti filmici, che possono essere organizzati secondo diversi criteri e mediante alcune parole chiave. Il materiale principale è costituito da clip di 163 film di Jean-Luc Godard, con cui Sivan costruisce una costellazione mutevole di possibili percorsi narrativi. Da qui la definizione di “montaggio interdetto”, quale modus operandi necessario a costruire un archivio che trova nel rifiuto di un ordine univoco e nella sua costante riorganizzazione la propria ragione d’essere. La scelta di Godard non è ovviamente casuale, ma permette a Sivan di svolgere in parallelo sia un discorso politico sulla situazione israelo-palestinese e sul ruolo che in essa giocano la cultura europea, le religioni, le ideologie – un tema che Sivan affronta in tutte le sue produzioni – sia un discorso teoretico sulla funzione del cinema e sull’uso delle immagini.
È in Ici et Ailleurs, un film prodotto nel 1976 con del materiale girato di cinque anni prima, durante un soggiorno in Palestina, che Godard affronta apertamente la questione plaestinese e lo fa utilizzando il montaggio in senso fortemente provocatorio. Tutta la sua produzione però, così schierata, complessa e radicale, offre a Sivan materiale di ricerca, a cui affianca numerose interviste, opinioni, commenti, costruendo un sistema di note e citazioni che convivono al medesimo livello con il testo a cui si riferiscono. Questa multilinearità, che si oppone sia all’ordine dell’archivio che all’accumulazione del database, permette al fruitore di mettere due o più frammenti in relazione tra loro e di creare così un’interazione che non può venir in alcun modo predeterminata.
Godard offre lo spunto anche per formalizzare la riflessione teoretica di Sivan. Notre Musique (2004) raccoglie la registrazione di alcune lezioni di cinema in cui il regista francese utilizza l’idea di campo e controcampo per definire la contrapposizione di fiction e documentario, di narrazione e realtà. Il processo di costante verifica che ne consegue è per Sivan uno strumento fondamentale, sia per liberare la storia da una interpretazione univoca, sia per disvelare il ruolo del cinema e delle immagini nell’invenzione dell’”altro”. Un processo complesso reso possibile dal montaggio, che consente di giustapporre immagini apparentemente univoche ma concretamente antitetiche, facendole reagire tra di loro per produrre una nuova immagine. È questo il caso della locandina del film Exodus, che Sivan contrappone ad una foto del porto di Jaffa affollato dai palestinesi in partenza per il loro esilio in Libano, nel 1948. Due eventi antitetici che pure vengono interpretati attraverso il riferimento iconografico dominante, che impedisce di interrogarsi sulla vera natura degli eventi rappresentati. Il problema della redenzione dello spettatore dall’univocità delle narrazioni trova soluzione per Sivan non nella proposta di nuove risposte, ma piuttosto nel processo di riformulazione delle domande. E attraverso Montage Interdit Sivan consegna agli spettatori la libertà di interrogare le immagini, di costruire con esse nuove narrazioni e di appropriarsi dello strumento del montaggio, a loro altrimenti interdetto.