Pieter Hugo (Città del Capo, Sudafrica, 1976), ha cominciato come fotoreporter ma si è rapidamente distaccato dal facile documentarismo per indagare quelle realtà del continente africano meno conosciute dal grande pubblico e più socialmente disturbanti. «Ho lavorato come fotografo per i giornali, ma non ero veramente soddisfatto….così mi sono attivato per acquistare una Hassemblad di seconda mano e sono partito per la Namibia. Lungo la strada ho fotografato tutto quello che catturava il mio sguardo, fra cui alcuni operai che lavoravano lungo i binari della ferrovia e che vivevano nel deserto in mezzo al nulla. Quando ho stampato i loro ritratti ho sentito più empatia con quelle stampe che con tutte le foto che avevo scattato fino a quel momento».
L’identità razziale e il problema dell’appartenenza sono, da sempre, al centro della sua ricerca artistica che è cominciata con “The Albino project”, un crudo reportage su una minoranza etnica “gli albini neri”, emarginati come paria e considerati i figli difettosi di una natura più matrigna che madre. Tratti somatici negroidi, ma con i capelli quasi trasparenti, gli occhi chiarissimi e la pelle così bianca da sembrare traslucida, un difetto genetico che rende questa minoranza africana non solo estremamente vulnerabile, data l’altissima probabilità di sviluppare il cancro della pelle ma, soprattutto, vittima dell’ignoranza e dei pregiudizi che li costringono a vivere ai margini della società in povertà e solitudine.
La denuncia degli orrori avvenuti in Rwanda nel 1994, mentre il mondo civile chiudeva gli occhi, ha prodotto nel 2004 il lavoro “Vestiges of a genocide: Rwanda”. Hugo ha fotografato quei luoghi, apparentemente anonimi per chi non conosce la storia di quel piccolo stato del Centro Africa, ma ancora carichi di dolorose vestigia, dove dieci anni prima la tribù degli Hutu aveva fatto strage della minoranza Tutsi. Un genocidio in piena regola con quasi un milione di morti. Donne, bambini e anziani, un’intera popolazione inerme trucidata capanna per capanna, villaggio per villaggio con mazze, machete e armi da fuoco non solo con inaudita ferocia, ma con una perfetta organizzazione, simile per crudeltà e scientificità al genocidio degli ebrei compiuto cinquant’anni prima da Hitler. Nel 2007 “Musina/Messina” è il triste omaggio offerto da Hugo a questa città di frontiera che divide il Sud Africa dallo Zimbabwe, e alla sua gente che spera di trovare nelle miniere di diamanti una via di fuga per una vita migliore.
Sempre nello stesso anno la serie di ritratti dei ‘Gadawan Kura’ ovvero “i domatori/guardiani di iene” del Lagos. Hugo ha vissuto otto giorni con un eterogeneo gruppo di nomadi, composto di alcuni uomini, una bambina, tre iene, quattro scimmie e svariati pitoni, che si esibivano con i loro animali di mercato in mercato per intrattenere gli avventori e vendere le loro medicine e pozioni. L’artista ha volutamente tralasciato di realizzare un reportage delle loro performances per realizzare dei ritratti intensi in cui indaga, con una totale assenza di giudizio, l’affascinante ibridazione di ferino e umano, di selvaggio e urbano e il complesso rapporto di dominio, co-dipendenza e conseguente sottomissione dell’animale predatore costretto a un’addomesticazione coatta e contro-natura.
Straniante e spiazzante è “Nollywood” del 2008, ritratti in bilico fra realtà e assurdo degli attori e dei figuranti impiegati da quell’abnorme macchina produttiva che è l’Africa (Nollywood la terza industria cinematografica del mondo) capace di sfornare più di mille films e home-video all’anno con un ritmo di sfruttamento del lavoro che farebbe inorridire qualsiasi regista o produttore occidentale. Il lato oscuro delle meraviglie della tecnologia che hanno rivoluzionato e facilitato la comunicazione e la nostra vita, ci vengono mostrate in tutta la loro crudezza in “Permanent Error”, Il lavoro esposto un anno fa al Museo Maxxi di Roma. Pieter Hugo, fra il 2009 e il 2010, è andato nella più grande discarica di “e-waste” del mondo Agbogbloshie in Ghana, un luogo così terribile e disumano da essere stato ribattezzato dalle tribù locali “Sodoma e Gomorra”, le bibliche città dannate e annientate da una pioggia di fuoco a causa dei loro peccati. Gli abitanti di questa landa desolata, in cui i resti dei nostri computer si affastellano creando degli scenari inquietanti degni di un “day-after” post-atomico, sono ritratti come dei nobili e fieri guerrieri che impavidi si ergono sulle rovine di un mondo violento e inospitale. Una bambina scalza con il vestitino bianco e rosa della festa ci guarda pensosa, ha in testa un povero catino di zinco, ai piedi delle ciabatte di gomma logora e intorno a lei la terra nera fuma come forse solo all’inferno può succedere. Quando Hugo ha chiesto agli abitanti di questo moderno Tartaro come si chiama il pozzo enorme in cui vengono bruciati, i rifiuti gli è stato risposto che per quel preciso luogo non c’era un nome abbastanza mostruoso per definirlo con parole umane.
La diversità, l’odio razziale, lo sfruttamento dei deboli, l’emarginazione che deriva dal colore della pelle sono gli occulti motori alla base del nuovo lavoro di questo straordinario artista che ha chiesto a tutta la comunità dei suoi amici di farsi ritrarre con un primo piano del loro volto per poi acconsentire di sottoporre la propria immagine in bianco e nero ad una sorta di procedimento di photo-shop al contrario. “There’s a place in hell for me and my friends” è il titolo di questa nuova inquietante serie di foto (presentata alla galleria Extraspazio di Roma), in cui Hugo, manipolando i canali del colore, ha enfatizzato i pigmenti di melanina dell’epidermide in modo da far apparire il più possibile i nei e le macchie cutanee che si formano con l’esposizione della pelle bianca ai raggi solari. L’effetto ottico è straniante perché i volti, dai tratti somatici caucasici, sono innaturalmente scuri, come se la pelle avesse subito una sorta di mutazione genetica da bianco a nero. Chi vive in Sudafrica sa cos’è il razzismo, sa cosa vuol dire avere la pelle chiara o scura, ed è la consapevolezza dell’importanza che il proprio colore può avere all’interno della società che ha portato Pieter Hugo a concepire questo sovvertimento percettivo dei colori dei volti fotografati. Un lavoro intelligente e intenso di denuncia del razzismo che sembra radicato in maniera quasi inestirpabile nel dna umano.
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