C’erano Alberto Sordi (Remo) e Anna Longhi (Augusta), luogo del fattaccio la Biennale di Venezia. Le storiche “Vacanze intelligenti” di due malcapitati fruttivendoli alle prese con un’arte che, ahi loro, non era certo più quella che potevano trovare bell’esposta su qualunque altare di qualsiasi chiesa romana. Episodio cult di un film altrettanto cult del 1978. Ma nel frattempo qualcosa è cambiato? L’arte contemporanea è effettivamente entrata nel quotidiano della gente? I fruttivendoli, con tutto il rispetto per la categoria, sono arrivati a relazionarsi cheek to cheek con un’atmosfera biennalistica intrisa di concettualismo alla “chi più ne ha più ne metta”? No, niente di tutto questo. Al contrario semmai, capita che alle soglie del 2015 più d’una persona possa sentirsi come Remo e Augusta senza nemmeno essere alla Biennale, bensì in una ben più tranquilla Galleria d’Arte Moderna di Roma, richiamati da uno sguardo (parziale? Fugace? A voi la scelta) che quest’ultima dedica a Michele Zaza (Molfetta, 1948); un’antologica che in quel “Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo” (a cura di Angelandreina Rorro, fino al 15 febbraio 2015) sembra voler crittografare la parola “narcisismo” tra le righe di una dichiarazione poetica.
Soprattutto fotografie, molte delle quali prodotte negli
anni Settanta e concentrate nella prima parte della mostra, spesso costruite
come sequenze filmiche poco comprensibili, con un concettualismo mistico spesso
da copione per un’artista del periodo. Già, perché ad accogliere i visitatori
della Gnam sono due lunghe file di scatti incorniciati che vedono protagonisti
da un lato il padre di Zaza (Dissoluzione mito e stile, anno ’74),
dall’altro la madre e lo stesso artista (Naufragio euforico. La felicità e
il dovere nella ripetizione omologata, sempre del ’74). Chissà come
sarebbero sbottati Remo e Augusta al loro cospetto, considerando che sì, salta
all’occhio la cura generale riservata alla costruzione cadenzata della scena,
ma pure che sotto sotto tutta la stessa costruzione tende ad un’espressività
cifrata e poco fruibile alla maggior parte del pubblico. Pubblico che,
effettivamente e per dirla tutta, in molti casi vaga per le sale piuttosto
dubbioso.
Sono passati quarant’anni tondi, eppure pare tuttora
improprio guardare in cagnesco chiunque si azzardi a dichiarare inespressive
(nella migliore delle ipotesi) due opere come queste; e non si può nemmeno dar
sempre e solo addosso al Remo di turno incapace di recepirne il messaggio,
perché a quel punto la colpa – sempre se di colpa si vuol parlare – sarebbe
quantomeno in concorso con l’artista, che magari quel messaggio l’ha diffuso
come fosse un codice Morse.
Tra i pregi innati in Zaza colpisce innanzitutto il rigore
creativo, quello di chi non lascia nulla al caso quando deve dare immagine ad
un’idea. Anche per questo acchiappa un lavoro come Mimesi, dove tutto è
di una precisione pesata e perfettamente funzionale allo scopo richiesto:
l’ambiente spoglio domestico, il punto luce unico e radente muro, la scala
tramite cui scatto dopo scatto prende il largo la magia terrena di un artista
diventato tutt’uno con lo spazio performativo. La stessa perfezione che, tra
cibo e suppellettili, difficilmente sfugge sulla tavola di Dissoluzione e
mimesi, cinque immagini a colori con un impianto scenico da caravaggesca Cena
in Emmaus, compresa la luce laterale, mirata e circoscritta. Entrambe le
sequenze equilibrano bene consapevolezza ideativo-pratica e sottofondo
grottesco, risultando tra più riusciti lavori in mostra, assieme alle due
istantanee tratte dalle performance Simulazione d’incendio, dove il fumo
in espansione, la gente sparpagliata o l’artista stesso che corre dicono di
un’artista in sintonia col proprio tempo.
Percorrendo il corridoio centrale la time machine avanza al
1980, epoca dei Paesaggi, matite su cartone belle per l’astrattismo
volumetrico proposto e i contrasti chiaroscurali azzardati quanto riusciti,
opere dominate da un segno rapido che può anche essere ammirato sbordante
quando non coperto (purtroppo in un caso solo su sei) dall’invadente
passepartout della cornice. Scorrono in una calma piatta i successivi Progetti
datati tra il 1998 e il 2010, anche se qualcosa a livello qualitativo sembra
essersi già perso in quelle tecniche miste che tra una geometria e l’altra
comprendono passaggi di carboncino, testi scritti su fogli volanti e pennellate
di colore. E quando pensi di avere la situazione spazio-temporale sotto
controllo scopri che qualche grinza cronologica attanaglia la seconda parte
della mostra, con un tourbillon di date che riparte tra il 1978 del dittico Ritratto
Celeste e il 1979 di Neoterrestre, ben 18 scatti che riprendono la
sequenzialità cara all’artista di Molfetta, spingendola sul filo della
ripetizione oggettiva drogata dalla presenza minima e variabile di semplici molliche
di pane.
L’approssimarsi dei giorni nostri porta in dote l’uso
smagliante del colore, con soluzioni di gusto pubblicitario alla Toscani (Ritratto
magico, 2005) e trovate come Viaggiatore assoluto (2009) e Viaggiatore
magico (2010), caratteristiche e godibili, ma dove la relazione mimica tra
oggetti e soggetto (ancora una volta Zaza stesso) pare scimmiottare – più che
perseguire e proseguire – quanto prodotto nel decennio ’70-’79.Non per fare i guastafeste dell’ultim’ora, ma la proiezione
per prima volta in Italia del video Cielo abitato l’attendevamo con un
certo interesse. E invece niente, schermo ko, a breve in attesa di ripristino
ci riferiscono. Normale amministrazione in un grande museo, vero, tuttavia
registrare l’assenza dell’unico video in mostra (per di più sbandierato proprio
nel comunicato stampa) è un autentico peccato, in modo particolare quando non è
la prima domenica del mese dell’era Franceschini, coi musei gratis. E lo
spettatore paga.
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