Ci si sente toccati di questi tempi, ci si sente fragili. La complessità di questa lunga crisi, che oscilla fra catastrofi imminenti (il crollo morale di una capitale, la severità di chi da oltre confine non smette di ammonire sul necessario da farsi), e lo scorrere pacato della quotidianità verso l’ennesimo natale, è come se rendesse più vulnerabili, indecisi se reagire oppure lasciarsi andare all’ anestetica atmosfera circostante. Venezia, quella città che Salvatore Settis nel suo ultimo libro descrive come appiattita sulla monocultura di una modernità standardizzata, rappresenta un set perfetto per questi nostri tempi: bellezza e vulnerabilità, prospettive incerte se segnate solo e sempre dal turismo, e per giunta, pur senza essere (più) capitale, non manca nemmeno l’ingrediente della corruzione, vedi Mose. La Serenissima ha evidenziato una tale permeabilità al malaffare dei colletti bianchi da richiedere patteggiamenti ad un sindaco e ad un presidente di regione.
Un set spazio-temporale perfetto dunque, compreso il periodo a ridosso delle feste, con le vetrine in spolvero e la Strada Nuova gremita di bancarelle, residenti e immancabili turisti. Lungo la Strada Nuova, non lontano dalla calle che porta alla Cà d’Oro, si trova Palazzo Mora, restaurato in parte, in parte lasciato nelle sue strutture portanti volutamente messe a nudo, percorribile fino al sottotetto, essendo stato comunque messo a sicurezza con intelligenza. Così da renderlo utilizzabile, dal giardino d’ingresso fino alle ultime stanze sotto travi e capriate, per una manifestazione di grande qualità, curata nei dettagli dell’allestimento quanto nel denso programma di eventi e incontri. La seconda edizione dell’International Performance Art Week, dedicata alla tematica Ritual Body-Political Body, dal 13 al 20 dicembre è uno di quegli appuntamenti fuori stagione, da non perdere. Inaugurata con il Fluxfood Concert in Venice curato da Gianni Emilio Simonetti, per l’intera settimana prevede una trentina di perfomances, chiudendosi il sabato successivo con la Poetry Lecture di Regina Josè Galindo e Imagine di Pedro Reyes, concerto for seven musicans and two metal-workers, eseguito con armi sequestrate alla frontiera messicana e trasformate in strumenti musicali.
Oltre al nutrito programma di eventi dal vivo, sono previsti, anche questi con cadenza quotidiana, sette Roundtables, nel vicino Palazzo Michiel, per approfondire tematiche a carattere teorico, progetti artistici e organizzativi di un settore che si sta rivelando essere sempre più una miniera di esperienze di rara intensità nell’ambito delle arti contemporanee. Chi si trovasse a circolare da queste parti, e non fosse in grado di seguire il programma degli eventi, in ogni caso non avrebbe fatto la sua visita invano. Nei tre piani del Palazzo è stata allestita un’ampia sessione espositiva con installazioni, fotografie, video e altri materiali di documentazione che sondano il fenomeno performativo in alcune delle sue figure e momenti più rilevanti dal decennio ‘60/’70 fino ai giorni nostri, restituendo quell’incrocio fluido fra parola, immagine, corpo, situazione, ambiente, temperie socio-politica che ha contraddistinto il ritorno, negli anni della contestazione, di pratiche artistiche già annunciate dalle avanguardie storiche. Pratiche che all’assunzione di anestetici hanno preferito una dura e sofferta critica vissuta individualmente, spesso nella propria carne, e proiettata pubblicamente.
L’iniziativa nel suo complesso è un consapevole tentativo di ricostruire il passato (recente) della performance, per sottolinearne la vitalità e la rilevanza anche per la ricerca attuale. In questo forse il merito maggiore della International art week: documentare, testimoniare, ripresentare quanto è avvenuto allora in stretta relazione con quanto ora sta avvenendo. Perché l’iniziativa, di per sé stessa, è stata performativamente concepita, attivando una relazione diretta con il proprio tempo e con lo spettatore, sempre meno tale dato il suo (richiesto) coinvolgimento negli eventi stessi. Si tratta di un percorso espositivo con oltre una quarantina fra stanze e situazioni, realizzate grazie alle collaborazioni che i due curatori e performers VestAndPage (Veronica Stenke e Andrea Pagnes) hanno saputo tessere con artisti, centri di documentazione (ASAC), e fondazioni internazionali fra cui la Fundaciòn Alumnos 47, la Live Art Development Agency e la Fondazione Bonotto. Grazie a quest’ultima è stato possibile realizzare degli spazi dedicati a Joseph Beuys e Alain Arias-Misson, del quale, in particolare, sono state ripresentate la videodocumentazione The Punctuation Public Poem (1971) e l’installazione Teutonic Public Poem (1991).
Fra gli ambienti, ma qui si va da fior in fiore, e dunque ognuno che visiti gli spazi potrà farsi una propria lista delle preferenze, certamente vanno segnalati quelli, ancora dedicati a materiale ‘storicizzato’, che presentano lavori di Terry Fox, Vito Acconci, Chris Burden, Carolee Schneeman (con opere serigrafate di quest’ultima prodotte dal veronese Francesco Conz uno straordinario collezionista, appassionato finanziatore e supporter di artisti scomparso nel 2010).
La Galindo costella il percorso espositivo fin dalla videoproezione nel giardino Lo voy a gritar al viento (1999), una stanza raccoglie materiale e video di performer quali Tehching Hsieh e Zhang Huan. Mentre bisognerà essere presenti il giorno 20 dicembre per la conclusione della long durational performance dell’australiana Sarah-Jane Norman che scriverà su delle ossa le parole di una lingua aborigena che viene scomparendo, componendo così la dolente archeologia della Bone Library.
Riccardo Caldura