Sospese in una nuvola di ricordi in bianco e nero, le foto di Letizia Battaglia allo ZAC (Zisa zone Arti Contemporanee), sono la testimonianza di anni di lotta appassionata per una città diversa. Sono scatti fatti da un occhio pietoso che senza distacco antropologico ha documentato le conseguenze dei vizi ferali di una realtà degradata e degradante, eppure bella. Miseria e nobiltà, verrebbe da dire, parafrasando semplicisticamente. Una nobiltà decaduta e deformata dalla maschera grottesca dell’indifferenza e dal fatalismo cronico, un’umanità stolida e stordita dentro la sfarzosa cornice cadente di una pantomima umana apparentemente intangibile da crimini e disperazione. L’ignoranza e la gravità dell’abitudine all’illegalità che trasudano dalla Palermo della Battaglia gli dà il volto di provincia micidiale, sacca dello stivale italiano penzolante di dolore dove comprimere la cattiva coscienza di un intero Paese.
Questo scarto, questa spazzatura è carpita dall’obiettivo dietro i nomi di eroi che hanno tentato di eliminarla insieme agli stereotipi, in una lotta che ha generato l’alternanza di accecanti luci di speranza e oscuri meandri del malaffare. Queste scene di Letizia Battaglia sono proprio così, ombre risentite e lame di luce, caravaggesche violenze disvelate da tagli baluginanti, crudeltà sfacciatamente teatrali, sacrifici e riti. Sono quelle di una Palermo che un quadro del Merisi l’aveva veramente, ma gliel’hanno rubato il 17 ottobre 1969. un furto, quasi una tragica celia che diventa genere letterario, un ossessione, un rimprovero raccontato al Teatro Massimo il 5 e il 6 Marzo in un opera scritta e diretta da Giovanni Sollima con le fotografie di Letizia e i testi del giornalista Attilio Bolzoni.
L’autonomo territorio siciliano, che si burla delle regole e si fregia dell’impunità di un crimine, è ritratto Nelle foto della Battaglia in frammenti che indicano un modo per sanare la distanza dal Paese cosiddetto “normale”, lo indica ricordando episodi d’innegabile bellezza che sboccia talvolta come rarofiore: una biondissima Franca Rame alla casina liberty per esempio, il ritratto di Pasolini, i volti dei bimbi che portano futuro.
Palermo, quindi, e per sineddoche, la Sicilia è il tema di questa mostra militante di Letizia Battaglia che, pur presentando scene abitate da figure, sembra fatta di soggetti che evitano il carattere transitorio ed emendabile delle immagini digitali. Queste foto, infatti, sono qualcos’altro, per non dire qualcosa di più. La natura quasi plastica dell’immagine analogica trasforma le figure impressionate in materia, e la materia in gesti di compassione capaci di trasferire dall’altrove a qui, dal passato al bruciante presente la cattiva coscienza del mondo contemporaneo, mostrando quelle contraddizioni spesso sedate da un oblio confortante e dal forzato rinnovamento. Il disagio della convivenza che spinge nell’ombra la miseria, la fotocamera analogica della Battaglia lo smaschera, lo colpevolizza. Questa in sostanza è la mostra antologica della fotografa ottantenne che gli americani hanno premiato con The W. Eugene Smith Award a New York nel 1985.
La mostra è anche, e direi soprattutto, una lezione per le giovani generazioni, un monito a non distogliere lo sguardo dalla commedia umana per continuare a scovare il male che in essa si annida. Proprio quest’aspetto umano, in questa mostra si arricchisce di quaranta scatti inediti che Letizia ha sviluppato per quest’occasione, scatti che esulano dal dovere di cronaca per l’intransigente posizione morale che assume innanzi alle azioni umane. Ritratti questi rigorosamente in pellicola colti col desiderio di carpire l’autentica fragranza dei caratteri, cancellando ogni traccia d’ironica, tragicomica labilità. Letizia non è, infatti, quasi mai ironica, tantomeno tragicomica, è semmai ostinata e testarda al limite del paradosso, ma di ostinazione che muta, di scatto in scatto, in una dolcezza trasgressiva.
La sua storia, infine, raccontata in un video chiude il percorso espositivo iniziato, per l’appunto, con gli eroi, indimenticabili e immortali cui, nonostante il subbuglio mediatico di oggi, resistono ancora come esempi di civiltà, come un tragitto dominato da un amore spiazzante, rivoluzionario. Dopotutto “nomen omen” latinamente “Battaglia” è il presagio di un’inarrestabile combattimento per la legalità e un mondo migliore. Ma entrando nel novero della fotografia, c’è da dire che lo stile di Letizia Battaglia supera spesso quello del fotogiornalismo risultando persino neo oggettivo dove la carica emotiva, esaltata dal dettaglio, sfrutta il portato simbolico per intitolare l’intero episodio. Questa intitolazione avviene sia per analogie, sia per assimilazione dello spazio come campo della rappresentazione. Elementi come la targa dell’automobile palesemente visibile nel reportage di un delitto sono, quindi, simultaneamente notazioni connotative sia quinte prospettiche, sia commento che struttura. Altrettanto avviene in uno straordinario scatto del morto ammazzato che mostra sotto la maglietta impietosamente alzata il volto piangente di Cristo, sicché quel “Povero Cristo” è nello stesso tempo vittima sacrificale e artefice della propria sventura.
Il rapporto tra scena e soggetto è, come ho rilevato parlando della foto della ragazza con la palla recentemente da queste colonne, sfrutta i contrasti per cui un nudo femminile che si staglia su un muro degradato sfida lo sguardo con la sua grazia disinvolta. Letizia Battaglia sembra spesso riattivare il portato simbolico della verità con il nudo così come fa utilizzando le atmosfere delle celebrazioni religiose per sottolineare quanto il potere del rito possa condizionare i comportamenti e scandire il tempo. E il tempo rilevato cronologicamente nei particolari, che costellano i fatti, non è mai però quello della celebrazione del passato e nemmeno il dato filologicamente inconfutabile con cui nutrire la storiografia, il tempo è realmente sospeso nello scatto. In questo modo Letizia Battaglia arriva persino a una sorta di catechesi laica tanto alcune immagini assomigliano a sacre rappresentazioni. La mostra in tal caso assume l’aspetto di un percorso di cui gli episodi sono stazioni di meditazione.