Aljoscha è lì che ci accoglie, con i suoi lunghi capelli color grano, i grandi occhiali e una tuta argento in stile Buck Rogers. Una guida intergalattica pronta a lanciarci in un viaggio spaziale di speranza, commozione e tanta ironia. La sua postura disinvolta e sorridente tra le colonne in pietra addolcisce la vibrazione, austera e metafisica, che solitamente lo splendido chiostro di Santa Caterina a Formiello promana. “Composing Bioethical Choices”, progetto espositivo presentato dalla Fondazione Made in Cloister in collaborazione con la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, si mostra come un vero e proprio ecosistema indipendente, concettuale ed emozionale. Acrilico, plastica, fibra di vetro, lavori utilizzati in vari interventi pubblici ma anche documentazioni fotografiche di scuole, chiese, piazze, sale e stanze, attraversati dalle opere di Aljoscha.
L’artista, nato Oleksii Potupin, 48 anni fa, a Hluchiv, antica cittadina del sud dell’Ucraina, durante i primi mesi del conflitto russo-ucraino ha attraversato il proprio Paese a bordo di un’auto sgangherata in un viaggio avventuroso, tra interminabili check-point e perquisizioni, tra diffidenza e curiosità. L’idea era quella di portare testimonianza ma anche un po’ di conforto e distrazione con la propria arte alla popolazione ucraina depressa non solo dalla brutalità della guerra ma anche costretta a una “dittatura” militare di fatto delle élite politiche del proprio Paese, in cui ogni voce di dissenso e di pace incondizionata, come quella dell’artista, è stata zittita.
Cresciuto con la pittura alla Kunstakademie Düsseldorf e alla Academy of Fine Arts di Salisburgo, il percorso di Aljoscha è andato negli anni oltre il gesto pittorico, oltre il colore sulle superfici, alla volta di un stile e di una visione pulsante, fluida, alla ricerca di una personalissima arte in e di movimento.
Luoghi dotati di magnificenza, come la chiesa gotica di St. Petri di Dortmund, la maison de plaisance di Palazzo Benrath a Düsseldorf, il Museo di arte contemporanea Erarta di San Pietroburgo, il Kupferstichkabinett di Berlino e il Museo statale di arte contemporanea di Salonicco. Ma anche tanti spazi “anonimi”, come sale, stanze e corridoi, che si lasciano maggiormente segnare, tracciare ancor di più dalle immaginazioni visive dell’artista ucraino, perché vissuti e agiti quotidianamente.
Anche qui, tra archi e pilastri, tra gli affreschi che resistono al tempo e i brevi e silenti camminamenti, la sua opera, liquefatta e legamentosa, sembra sfumare ogni rigida definizione, ogni strato archeologico, storico e cromatico dell’austero chiostro cinquecentesco.
Se la sua filosofia di vita spinge infatti verso «La totale liberazione dalla sofferenza di ogni tipo e la conseguente creazione di una specie umana completamente nuova», il suo modello è quello del bioismo e del biofuturismo. Un’idea utopica di convivenza in cui ogni forma, ogni elemento che oggi è inanimato, materico e funzionale assume una vita e una direzione consapevole. «In futuro, sulla scia di una rivoluzione biologica, useremo mobili viventi, abiteremo in case viventi e viaggeremo nello spazio usando stazioni viventi». Così le propaggini aeree e liquide di Aljoscha sono un assaggio del futuro, perché aiutano a disvelare quel flusso antropico connettivo, quel pulviscolo emozionale in fondo presente nel nostro tessuto sociale, ma pur sempre invisibile, e in certi momenti di crisi e disperazione, flebile fino all’inconsistenza.
Un sistema circolatorio universale, che comunica e trasporta attraverso tutti noi, inspiratori e espiratori, un ossigeno che naviga sotto forma di messaggi, desideri, sensazioni, idee, sogni e che Aljoscha ci chiede di soffiare ogni giorno con le nostre azioni e le nostre emozioni.
E l’artista ucraino, con il suo sguardo, il suo portamento gentile ma assertivo, ci invita dunque a compiere un passaggio, un cambio di stato, una separazione dal noi stessi quotidiano e imprigionato in sedi e pratiche ripetitive e sterili. Entrare in comunicazione con la sua opera significa perciò stabilire un contatto con chi ci sta attorno, a fianco, nella nostra memoria o nel nostro cuore. Qualcosa di sconosciuto e anche rischioso. “Composing Bioethical Choices” non si lascia dunque guardare ma ci chiede di immergerci, di cogliere in maniera divergente le dimensioni emozionali che attraversiamo troppe volte con indifferenza o insensibilità. E lo fa con la delicatezza, con l’elegante e apparente fragilità di un mondo acquatico e sargasso in stile Arzach di Moebius, tanto sottile ma potenzialmente capace di (ri)conquistare qualunque spicchio di questo mondo, se soltanto volesse.
Attraverso la forza vitale, espansiva e connettiva, ma soprattutto armoniosa di una natura primitiva e amniotica Aljoscha, sorridendo, ci suggerisce questo. Di riscoprire il gesto profondo e ancestrale dell’immersione. Necessario per ricordarsi da dove veniamo e per capire dove andremo.
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