13 dicembre 2012

Il gospel energico di Alberto Tadiello

 
La personale dell'artista vicentino inaugurata a Villa Croce si dimostra a tutti gli effetti una sintesi organica della sua versatile espressività. Ma è anche l'occasione per ragionare sull'universo artistico di un under trenta che non ci ha messo molto a farsi conoscere (e riconoscere) dentro e fuori i confini nazionali. E che presenziando in quel di Genova non passa inosservato

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Se ambite ad un’esposizione d’arte coinvolgente, che stimoli più livelli sensoriali senza ricorrere ad abusate tecnologie moderne ed effetti speciali che magari di speciale hanno ben poco, Villa Croce è il luogo giusto per voi. Fino al 18 febbraio ad aspettarvi nella mecca del contemporaneo genovese c’è un’attenta fusione tra forma, materia e suono, i tre elementi cardinali sufficienti ad Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, 1983) per sfoggiare una concettualità che non vuol correre il rischio di esprimersi nella monotonia formale e che, passata per la partnership curatoriale di Ilaria Bonacossa, si ritrova a vestire quella concisione espositiva destinata a divenire marchio di fabbrica dell’ameno museo.

Attraverso opere per lo più realizzate in site specific, High Gospel permette di focalizzare un’attività a tratti molto interessante, altre volte piuttosto controversa perché legata ad un gusto estetico speculativamente meno incisivo, nella quale la presenza di metodiche piuttosto collaudate, e certo non nuovissime, è conseguenza di una parentela abbastanza stretta con quell’Arte Povera a cui il suo giovane demiurgo sembra strizzare volentieri l’occhio.

Intendiamoci, non che Tadiello di fatto riproponga un linguaggio poverista immutato nel tempo, tuttavia nei suoi lavori se ne ritrovano spunti, filiazioni intellettuali e pratiche. Interessanti non perché in High Gospel s’incontra un’artista “giovane” tutto dedito a sondare i meandri della materia (di scarto) invece di puntare sulle tante possibilità di qualsiasi media digitale, in fin dei conti non c’è nulla di strano né di particolarmente eclatante in ciò. Ad incuriosire è piuttosto il “come lo fa”, è scoprire qual è la sua capacità di sondare e successivamente svolgere una ricerca che comunque butta un occhio al passato, avendo la pretesa d’essere al tempo stesso ben proiettata nella contemporaneità. E incuriosisce anche la maniera in cui si dimostra in grado di captare determinate codificazioni concettuali e manuali rendendole un lessico moderno, rielaborato per essere poi coerentemente incanalato all’interno di un unico denominatore e di un’unica parola: energia.

L’energia è il fil rouge che con discrezione unisce tutti i lavori di Tadiello, forza bloccata nei tre cingoli tagliati senza troppi riguardi e piegati in grosse spirali, per tensione dinamica un po’ figli naturali delle celebri Torsioni di Giovanni Anselmo, un po’ opere intrise di totale autosufficienza e avvalorate dal non sottovalutabile plus delle basi in MDF, efficacissime separazioni scultura/pavimento, perfette per consacrare questi cingoli ad opere d’arte in cui la materia è trasfigurata conservando del proprio originario utilizzo un ricordo ponderatamente presente e in nessun modo retorico.

Ad aleggiare su tutti i lavori è un costante effetto “post lotta” artista/medium, palese in relazione ai sopracitati (e decisamente corpulenti) cingoli così come alle “innocue” penne biro con cui Tadiello delinea gravitazionali buchi neri, agendo con la naturale forza di un moto volutamente evidenziato, accuratamente dosato e reso tridimensionale da un’introduttiva leggerezza marginale trasformata via via in fitto spessore centripeto. Illusori grovigli d’inchiostro che trovano la propria comunione “per opposizione” nei tre intrecci metallici (pericolosamente) aggettanti dal muro un paio di sale più avanti, seppur in quest’ultimi la stessa idea di accumulo lineare appaia per lo più rivolta verso una marcata resa estetica, tendente piuttosto al puro design che alla schietta concretizzazione significativo-simbolica.

Spiccatamente decorative, almeno a prima vista, si presentano le piccole carte incorniciate che mostrano geometrie simili a frattali, accattivanti in special modo per quel sovrapporsi energico e multimaterico che crea texture tridimensionali perfettamente godibili con una luce incidente sempre disponibile (anche quando la giornata non è delle migliori) grazie alle ampie finestre, in una sala dove appare riuscito l’accostamento alle quattro casse che spandono l’assordante e cacofonica energia sonora di Szabla, campionatura pesantemente rielaborata e così disarmonicamente intrigante nei ricercati effetti aggressivo-psichedelici delle sue cesure violente ripetute in un loop infinito. Più rivolte ad effetti di pura suggestione ipnotica sono l’altra grande installazione sonora, Doppler, e un’opera sonora solo di riflesso, che in sé condensa un po’ tutte le peculiarità formali/concettuali incontrate durante il percorso: Tarantolata, betoniera rimaneggiata per dare forma ad una scultura a suo modo armoniosa, decorativa quanto serve con tutte le viti allineate, potentemente magnetica nella reiterante congiunzione di suono/rumore e moto rotativo. Ma ormai del tutto assuefatti al miscuglio sonoro che inevitabilmente invade gli spazi, ci si avvia all’uscita con la consapevolezza che coerenza (intellettuale) e molteplicità (formale) sono ancora concetti tra loro abbinabili. Magari tra alti e bassi, ma pur sempre abbinabili.

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