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14
luglio 2013
Il grande artificio di Degas
Progetti e iniziative
Contrariamente alle abitudini degli Impressionisti, ai quali era legato, Degas non dipingeva en plein aire, ma nel suo studio. Reintervenendo infinite volte sulle opere fino a sviluppare quello che una bella mostra di scena a Copenhagen definisce il “metodo Degas”. Al cui centro sta un'idea razionale della pittura, uno studio accurato dei pittori che amava e soprattutto del movimento. Fino ad assoggettarlo alla sintassi del quadro
«È molto utile copiare ciò che vediamo, ma è molto meglio disegnare quello che abbiamo conservato nella nostra memoria». Una dichiarazione del tutto inaspettata da parte di Edgar Degas, protagonista dell’Impressionismo, che si fondava sulla pittura in diretta, praticata all’aria aperta. In realtà Degas era un impressionista sui generis, come rivela la grande mostra Degas’s Method, aperta fino al primo settembre alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. Ordinata con precisione e coraggio da Line Clausen Pedersen, curatrice per la pittura francese del museo, la rassegna analizza le diverse sfaccettature di una personalità complessa e contraddittoria, molto più sperimentale ed avanzata dei suoi colleghi. «Degas è un paradosso – spiega la curatrice – perché se da una parte raffigura la vita moderna, dall’altra insiste continuamente sul valore della tradizione, analizzando i maestri del passato e coltivando per tutta la sua vita la pratica del disegno».
Per permettere ai visitatori di entrare nel labirintico mondo dell’artista, l’attenzione della curatrice è focalizzata sul suo metodo di lavoro: un processo articolato che si distacca dagli altri suoi colleghi. Innanzitutto, niente pittura en plein air: nelle coulisses del teatro dell’Opera o alle corse di cavalli, che l’artista frequentava in quanto attratto dal movimento dei corpi, umani ed animali, Degas disegna rapidi schizzi su carta, in genere legati ad una singola posa. Una volta tornato nel suo atelier, riporta gli studi su tele che ritocca continuamente. Lo dimostra l’opera Dancing practising in the Foyer, un dipinto cominciato intorno al 1875 e ritoccato fino alla morte dell’artista, nel 1917. Una presenza costante all’interno di uno studio che assomiglia ad un laboratorio, dove Degas assembla, in un disordine totale, gli elementi fondamentali del suo lavoro: primi tra tutti centinaia di disegni e dipinti suoi e degli artisti che ammira: se Ingres e Delacroix li considera maestri, Daumier lo interessa per il tratto veloce e ironico, che rivela un talento di disegnatore straordinario.
Un’altra parte dell’atelier era riservata alle figure di cavalli e ballerine modellati in cera, che permettevano all’artista di esasperare fino all’estremo il movimento di un braccio, una gamba o un piede. Se gli originali sono andati perduti rimangono i 73 bronzetti, ognuno ripetuto 24 volte: in mostra sono esposti tutti e 73, appoggiati a semplici scaffalature di legno grezzo, per suggerire l’atmosfera dell’atelier, dove erano conservati alla morte dell’artista. «Fatta eccezione per la Piccola Ballerina di 14 anni (1880-81), Degas non ha mai voluto esporre questi modelli, perché li considerava materiali di lavoro, così come i suoi schizzi», aggiunge la curatrice. Un’attitudine analitica e razionale presente anche nella pittura: ogni dipinto non è il risultato di uno sguardo furtivo dietro il sipario, bensì la costruzione di una scena dedicata allo studio del movimento in sé, prodotto da corpi femminili spinti ai limiti dell’equilibrio, secondo un’attitudine che ritroviamo, un secolo dopo, nelle opere di Marina Abramovic, Gina Pane o Arnulf Rainer.
«È necessario realizzare lo stesso soggetto dieci volte. Cento volte. Nell’arte niente deve apparire casuale», sosteneva Degas, all’interno di una visione che spingeva il naturale verso l’artificiale. Non è un caso che l’ultima sezione della mostra sia dedicata a Degas e l’artificio, e qui la tesi della curatrice raggiunge il suo culmine, nell’accostare tre dipinti dove appare chiara l’intenzione dell’artista di riflettere sulla pittura intesa come linguaggio e non solo come strumento o tecnica: la foresta dipinta a larghe pennellate che ospita una volpe morta, dipinta in maniera così realistica da sembrare fotografata, o il fantino caduto di schiena sulla pista dell’ippodromo che splende nella sua giacca rosa acceso, mentre sopra il suo volto corrono cavalli appena tratteggiati, o il piccolo paesaggio marino che esplode in una miriade di tinte cangianti, quasi a fare il verso ai sognanti pastelli di Odilon Redon.
«Ogni immagine fa parte di un universo assemblato artificialmente, fuori dalla cultura e dalla natura», puntualizza Line Clauden Petersen, che dobbiamo ringraziare per averci fatto scoprire la vera essenza dell’arte di Degas, al di là della sua partecipazione all’Impressionismo, troppo riduttiva e banale per un artista di tale complessità.