Il grande derby dei ’60: Roma/Torino

di - 7 Luglio 2016
“Imagine – Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969” è il titolo della mostra aperta alla Guggenheim Collection di Venezia fino al prossimo 19 settembre, a cura di Luca Massimo Barbero (catalogo Marsilio). Una rassegna di opere, presentate nel consueto spazio destinato dalla Collezione alle esposizioni temporanee, esemplare nel testimoniare  attraverso gli esponenti della romana Scuola di Piazza del Popolo e quelli torinesi dell’Arte Povera, la grande vivacità ma anche la particolare eterogeneità stilistica che segnavano la creazione artistica di quei “favolosi anni ‘60” nella capitale e nel capoluogo piemontese,  così come Azimut in quegli stessi anni lasciava il segno sull’esperienza artistica nella metropoli milanese.
Fra i romani, ampiamente rappresentato Mario Schifano, dagli iniziali monocromi alle coloratissime tecniche miste degli anni successivi; ma sono illuminanti anche i ritratti di Fabio Mauri e Francesco Lo Savio, con Franco Angeli e Tano Festa, e, via Gnoli Ceroli Fioroni Rotella Kounellis, giù fino a un altro punto fermo, Pino Pascali. A Torino operano parallelamente Pistoletto e Paolini entro simili coordinate linguistiche, che hanno al centro dell’attenzione un’idea di “memoria” dell’immagine specchiata piuttosto che frantumata e reinterpretata.
Il contributo che segue propone un punto di vista ellittico rispetto a quello tradizionale di lettura delle opere esposte in mostra.

Eidetica e prossemica. Due parole, veicolo di altrettanti concetti, per esempio di relazioni profonde fra produrre arte e comporre musica, mi tambureggiavano nella mente durante la visita di “Imagine – Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969”. Un po’ com’era avvenuto in “Azimut/h. Continuità e nuovo”, la mostra che l’ha preceduta alla Peggy Guggenheim, nell’indagare un luogo di riferimento – in quel caso la Milano di Manzoni e Castellani – per la nascita e l’evoluzione di un pensiero e di una produzione artistica che hanno lasciato un segno profondo sulla creatività nei decenni a venire. Già, perché nell’esperienza milanese di Azimut come in quella romana, in particolare nella fase aurorale della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo e in quella torinese dell’Arte Povera, le premesse estetiche che governano il “fare arte” sono animate da un’ansia intellettualmente lucida, ma al tempo stesso emotivamente tesa, che non prescinde dalla stessa percezione visiva. E allora, più che l’idea d’immagine come “icona”, rappresentazione, è l’immagine (l’Eidos) immaginata in assenza e, qui, è la prossemica, ossia la misura della consapevolezza critica nei confronti dell’immagine, a offrire una chiave di lettura capace di congiungere in profondità esperienze artistiche diverse come creazione artistica e composizione musicale.

Con i monocromi del primo Schifano, e ancor più con lo schermo di Mauri sta il punto di contatto con la poetica dell’azzeramento di Azimut. Son tempi di vivaci interferenze: interessante scoprire che una delle prime mostre che riuniscono i giovani artisti romani nel novembre del ‘60 alla Galleria La Salita, “5 pittori. Roma ’60”, fosse presentata da Pierre Restany, che definisce i 5 (Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini) jeunes pragmatistes romains, ascrivendo il movimento degli artisti di Piazza del Popolo alla corrente del Nouveau realisme, di cui Restany era notoriamente mentore ed esegeta. Francesca Pola nel catalogo parla di figurazione d’avanguardia e di metafisica del quotidiano, e rammenta l’etichetta di “figurazione novissima”, inventata da Marco Fagiolo dell’Arco, per mettere in contatto ideale la temperie romana con quella appunto, dei poeti “novissimi” legati al milanese Verri. Proiezioni concettuali di un reale “patito” da molti di loro nella vita di tutti i giorni, ma in fondo “chiosato” nell’invenzione artistica: ennesima profonda contraddizione questa volta esistenziale.
Proiezioni, dunque. Per esempio d’immagini preesistenti, vissute non tanto come spunti ispirativi, quanto come prototipi magari scelti a caso: per esempio i Michelangelo per Tano Festa, il quale confessa candidamente di non essere mai andato a vedere la Cappella Sistina; piuttosto che la Grande odalisca di Ingres: «Questa cosa mi piace, potrei metterla in un quadro come potrei metterci una pianta, una macchina, una persiana». Ma anche la Nascita di Venere per Giosetta Fioroni, che altrove regala un’espressione di conforto a questa tematica dell’Eidos: “immagini del silenzio”.

Puntuale la definizione di Barbero: «Immagine mentale, sia provocata dalla fantasia, sia ricavata dalla memoria». Siamo qui alla radice di una nuova immagine e, proprio come avvenuto con Azimut/h, anche qui assistiamo all’emergere di questa radice dal terreno, diverso solo geograficamente – là Milano, qui Roma e Torino, ma non cronologicamente, fine anni Cinquanta e decennio successivo. La reazione alla soggettività dell’Informale-materico, a sua volta eredità della temperie espressionista, negli Usa prende la forma di una divaricazione: Minimalismo da una parte, Pop Art dall’altra. Il concetto di radicalità – non di radicalismo – si manifesta nella sua ambivalenza: tabula rasa da un lato, nuova figurazione dall’altro. In Italia la prima porterà ad Azimut e ai monocromi di Schifano e Lo Savio, ma anche alla pittura analitica; l’altra tendenza vedrà appunto i romani portati da Calvesi alla consacrazione della Biennale nel ’64, e i torinesi dell’Arte Povera.
E se il monocromo è motivo d’apertura di Schifano, definire un nuovo rapporto figura-sfondo e quindi un nuovo spazio, è invece la premessa estetica di Fabio Mauri. Di quest’ultimo Cinema e figura in mostra ben lo spiega. In Mauri è lo “svuotamento” ad affermarsi. Emozionante poi un altro suo titolo, Ascolto Schermo: lo schermo qui è strumento di mutazione, quasi un cherigma visivo. In Franco Angeli è invece il camouflage dei simboli di tutta evidenza, la croce uncinata, il triregno papale, la lupa, nascosti sotto la calza di nylon, a costituire la sostanza “reservata” (proprio come quella musica antica, detta appunto reservata, che nascondeva ai più, rivelando solo agli “edotti” i rapporti alchemici fra segno scritto e risultato sonoro) di un raffinato intervento interpretativo sulla realtà. In quel momento d’esordio anche Francesco Lo Savio rivela forti motivi d’interesse.

Schifano proseguirà la sua avventura artistica spingendosi dopo l’esperienza newyorkese verso i noti approdi pop, mentre Domenico Gnoli rimarrà come Lo Savio giovane nell’arte e nella vita. Qui l’aspetto eidetico concede molto a quello iconico, ma solo in superficie. Iperrealista ante-litteram, attraverso il blow-up Gnoli riserva all’immagine dipinta con un cromatismo troppo realistico per non apparire innaturale la stessa attenzione che in quegli anni riserveranno all’immagine riprodotta i réportages di Rotella e le foto su tela emulsionata di Paolini. Esperienze tutte ben testimoniate in mostra. Gnoli è pittore disperatamente chirurgico, “fiammingo” (non come i pittori, ma come il tardo Beethoven). Il suo rapporto con la storia è asettico – “anaffettivo” come si diceva di Schifano -, consentendo così, quasi a silloge della citata biforcazione aperta dalla reazione all’informale, una doppia lettura: quella del filosofo sistematico e quella del pop.
Chirurgico lo fu dalle prime mosse anche Giulio Paolini, ma qui la storia ridisegna concettualmente l’immaginario, proiettandolo in una dimensione di costante conflittualità fra astratto e realistico. Torna la prevalenza dell’Eidos, e torna la distanziazione prossemica di un’immagine-segno che prende spunto dal passato per proiettare chi incrocia il proprio sguardo con l’opera verso un “altrove” dilavato. Perciò, sì, niente di più “musicale”, ma quanto di più difficile nel trovare dei riferimenti più o meno storicizzati. Non certo un neoclassicismo di tipo ipertestuale alla Schnittke, e tantomeno alla Stravinskij del Dumbarton Oaks, per esempio. E neppure abborracciate operazioni di riscrittura postmoderna. Piuttosto, uno stimolo a riflettere su geografia e storia del comporre (musica) in modo proiettivo, con l’ambizione di giungere allo stesso livello di originalità.
Per concludere, è indubbio che, ben lontana da certo cinismo mass-mediatico di tipo warholiano, la stagione artistica raccontata da questa mostra veneziana lascia il segno su chi voglia farsi “ispirare” da forte, costante passione intellettuale.

Luigi Abbate

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