Parlare di paesaggio, di fotografia e della società che evolve modificando il paesaggio stesso; farlo dentro una caratteristica cantina tra botti d’acciaio e macchine imbottigliatrici, per poi spostarsi all’esterno, mentre con un bicchiere di vino in mano si contemplano le pacificanti colline che separano i comuni di Gavi e Novi Ligure. Questa è una minima parte di quanto vi siete persi se lo scorso 12 aprile non eravate in quel locus amoenus basso-piemontese dove ha sede la Fondazione La Raia, istituzione che sotto la direzione artistica di Irene Crocco continua a macinare momenti di riflessione sul paesaggio inteso come soggetto partecipe-partecipato, tutt’altro che statico o anacronistico.
In particolare l’appuntamento di metà aprile ha coinvolto due personaggi diversi e complementari, entrambi protagonisti chiave nel campo dell’istantanea. Uno è fotografo figlio d’arte che ha saputo costruirsi una sua cifra ben specifica, l’altro è critico e storico della fotografia: rispettivamente rispondono ai nomi di Francesco Jodice (Napoli, 1967; vive e lavora a Milano) e Francesco Zanot (Milano, 1979). Con l’incontro What we want: il paesaggio come desiderio collettivo, presso La Raia si è inaugurato contemporaneamente il primo passo del progetto The book tour, volume under costruction che nascerà da un corpus totale di sei colloqui in cui Jodice, Zanot e il pubblico presente discuteranno di paesaggio da varie angolazioni, in vari spazi dedicati all’arte contemporanea (tra le prossime location ci saranno anche il Maxxi di Roma, il Madre di Napoli, il Pac di Milano).
Leitmotiv della discussione è stato il “Paesaggio sociale”; questione che non può essere trattata senza partire dall’esperienza di What We Want, serie di scatti dai cinque continenti con cui dal 1995 ad oggi il fotografo napoletano ha lavorato in modo analitico e comparativo sul paesaggio in senso mondiale (e «assolutamente non globale», come Jodice stesso tiene a precisare). Risultato è un archivio d’immagini orientate ai caratteri strutturali e sociali specifici di ogni luogo, generati da popolazioni vive e vitalmente in grado di trasformare le dinamiche interne al proprio habitat. Quindi, a scanso di equivoci, sin da principio l’autore mette in chiaro che What We Want è «un progetto di antropologia urbana», o altrimenti «un atlante di particolarismi».
Dalle circa due ore di dibattito è emersa l’immagine di un paesaggio aperto, punto di partenza influenzato e altamente influenzabile nel suo evolversi, ri-articolabile di volta in volta a seconda dei valori estetici, politici, religiosi e culturali dei suoi abitanti. Ma è venuto a galla anche tanto altro. Jodice – piuttosto sarcastico per tutto l’incontro – non è tipo da mandarle a dire, racconta dei suoi scatti che descrivono «un territorio pensato dal basso», soffermandosi in modo particolare sulla ferrea volontà di ottenere una narrazione in cui il paesaggio non venga mai trattato in termini positivi o negativi. Poi, stizzito come solo un artista costretto in un contesto socio-culturale poco accattivante come il nostro potrebbe essere, afferma che «l’Italia è un Paese che odia l’arte», sfociando in un j’accuse nei confronti di un rapporto storia/arte tanto problematico quanto attuale morbo endemico dell’Italia stessa, nazione dove «si pensa che antico voglia dire bello» e dove c’è scarsissima voglia di cambiamento, perché noi italiani «facciamo fatica a sentirci sedotti dal cambiamento». Al contrario, circostanze differenti hanno dato al cambiamento ben altro valore non lontano da noi, in paesi come Siria o Algeria, dove la fotografia rappresenta secondo Jodice «un’arma di guerra», deputata ad essere chiaramente un «dispositivo politico, un sensore politico».
I fatti socio-politici della primavera araba sono un assist per Zanot, più che invogliato ad introdurre l’aspetto spiccatamente sociale della multimedialità nel sostenere che il «fotoreporter non esiste più», che «il reportage è morto» all’indomani della diffusione su larga scala di telefonini e fotocamere. Piccata la risposta di Jodice, che con un lapidario «il reportage non è morto, si è suicidato» risale dalla cronaca visiva per approdare ad una più vasta concezione della fotografia come «luogo dove si pongono le domande», come soggetto proprio chiamato a «mettere insieme i frammenti per fare ipotesi».
Zanot mette in evidenza due peculiarità incontrovertibili nell’opera di Jodice, ossia quella «luce lattiginosa» – sicuramente in alcune occasioni d’ascendenza ghirriana – per sancire infine la tipicità di un lavoro fotografico che a suo dire «sfrutta la fotografia come opacizzazione della realtà più che svelamento». Rincara Jodice, dichiarando che nei suoi scatti «quanto più è complessa la storia, più è scarnificata la semiotica», indice particolare di un fare fotografia in cui vige proporzionalità inversa tra peso narrativo e uso delle immagini.
Le battute finali sono le parole di un fotografo-artista accanito verso la dilagante moda-mania dei selfie sui social network e che poco si riconosce in situazioni espositive come l’ultima Biennale di Massimiliano Gioni, causticamente definita «showroom» al pari di molte gallerie d’arte contemporanea nazionali. In sostanza, considerazioni sintomatiche di un’ideologia artistico-visiva divenuta col tempo troppo salottiera, leziosa o modaiola, per forza di cose incompatibile con chi come Jodice crede ancora che «l’arte ti deve mettere in difficoltà, deve costituire la massa critica». Ponendosi decisamente dall’altra parte della barricata.