11 marzo 2019

Il peso dell’assenza

 
Ritrovarsi da Pinksummer a sette mesi dal crollo del ponte Morandi, per provare a gestire e condividere un vuoto. Con Peter Fend, Yona Friedman e una call aperta a tutti

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Questa premessa non è doverosa, ma un atto spontaneo quando ti trovi a parlare di 14 agosto 2018 e vivi a Genova. Che non si è divisa come le acque del Mar Rosso, anche se l’enfasi adottata da certi media l’ha lasciato intendere. Sicuramente, soprattutto nell’immediato e prima che le autorità competenti adottassero soluzioni tampone, la mancanza di un collegamento autostradale ha costretto ad un repentino cambio di abitudini. E le abitudini sono una brutta bestia, per scansarle c’è solo da dotarsi di buona volontà in più, anche quando dai discorsi che senti in giro muoversi per molti sembra diventata fantascienza. Certo perdere la comodità di quel collegamento per un cittadino – ma anche per un “forèsto”, come chiamano i “non genovesi” da queste parti – non è facile, ed è ancor più dura se sei a cinquant’anni dalla sua acquisizione. E certo altra storia è quella dell’attività portuale e del suo indotto, anche se – ultimi dati alla mano – il + 3 per cento segnato a febbraio ha reso le ricadute sull’import-export minori del previsto. Morale della favola Genova è in mezzo al traffico come prima, e in mezzo alle lamentele più di prima, che siano a torto, a ragione o pretestuose. Ma si sa, qui il mugugno è libero, anche quando senza troppi complimenti dovresti sentirti un sopravvissuto, solo perché in quel momento non eri nel posto sbagliato al momento sbagliato. Né sopra, né sotto.
L’arte contemporanea non risolve certe situazioni “scomode”, e non ci salverà da un contesto storico in cui aprire bocca e dargli fiato è abitudine consolidata. Ma detiene un ruolo sociale, e per questo non può esimersi dal prodursi quale terreno di scambio riflessivo e propositivo. «Subito dopo il crollo del ponte Morandi moltissimi artisti ci hanno subito contattato» racconta Francesca Pennone di Pinksummer introducendo Peter Fend (Columbus, 1950), artista che nell’immediato si è dimostrato disponibile ad intervenire sull’accaduto. In coppia con Yona Friedman (Budapest, 1923), e con la curatela di Emanuele Piccardo e Andrea Canziani, Filling the absence – fino al 5 aprile – nasce non come una bi-personale, ma una “multipersonale” ragionata sul post-ponte. Impostata sul Fend-pensiero è una riflessione territoriale a maglie larghe, concentrata su quello che non è stato fatto e che si potrebbe attuare in un’area di traffici importanti come quella genovese. E nelle maglie larghe è inclusa un’attitudine tutta fendiana per le concatenazioni d’idee e divagazioni creative, a partire da quella Maglia di Genova disegnata dall’alto di un semplicissimo foglio A2, in cui l’artista sinteticamente traccia le rotte che via terra e mare portano dal capoluogo ligure portano al resto del mondo, una ragnatela di collegamenti infrastrutturali – esistenti o da materializzare ex novo – esplicati dettagliatamente nei pannelli sottostanti. Una ragnatela che, meditate gente meditate, se esistesse come proposta da Fend permetterebbe oggi di bypassare il viadotto sul Polcevera. Utopie a buon rendere, sognando un’interazione attiva dell’Italia col Nord Europa e col continente Africano, primo passo nello sviluppo della fendiana “Eurafrica”, continente “unificato” geograficamente naturale, vantaggioso per tutti i partecipanti e per il sostentamento dell’ecosistema territoriale. Una risoluzione geopolitica più che auspicabile per chi, come Fend, è terrorizzato dall’esistente ed insistente “colonizzazione” cinese in terra d’Africa. 
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Peter Fend, Yona Friedman – Filling the absence – installation view – courtesy Pinksummer e gli artisti – photo Alice Moschin
Dal Morandi, da Genova arrivando all’Africa passando per la Cina, nell’ottica di Fend un passaggio tutt’altro che fuori scala. Lui fa voli pindarici con lo stesso dinamismo creativo dei suoi fogli, lavori che nel loro essere un po’ grezzi e prototipali non si preoccupano di organizzare un effetto d’insieme da “aula delle elementari”, conditi dalla licenziosità di scritte autografe e immagini incollate mettendo in mostra tutte le antiestetiche bolle d’aria sottopelle. Fend è così, non gli interessa, non è affare suo. Anzi, rigira la frittata, tutto questo insieme di dati è proprio la firma operativa di uno che ha immolato la precisione e la voglia di apparire “perfettino” sull’altare del contenuto da esplicare, dell’urgenza di farlo dopo aver ragionato, dopo aver passato «Un mese a fare avanti e indietro dalla facoltà d’architettura dell’università di Genova», come racconta Pennone. Dopo averla ancora una volta “presa alla larga”, partendo indirettamente dall’italiano Umberto Nobile, dalla progettazione tutta italiana del dirigibile per regalare all’Italia una soluzione “fatta in casa”, che dal prodotto dirigibile porti allo smantellamento pezzo per pezzo del Morandi con l’utilizzo di palloni aerostatici.
In realtà le cose procedono diversamente, e non vedremo mai sezioni di ponte volare via appese a palloni, soluzione che pare campata in aria, ma nel dettaglio della descrizione fendiana non manca di sfoderare le sue fondamenta tecniche. Il contesto tematico è fissato, i cartelloni sono chiari e l’enorme Football field come metafora di una Libia al centro di tensioni geopolitiche è tracciato nero su bianco, in tutti i sensi. Ecco, già che ci troviamo spezziamo una lancia in favore di un artista che ogni dicitura, commento o postilla te la scrive in italiano, adattandosi al linguaggio del paese in cui espone per farsi capire da tutti. Adorabile il concetto, l’idea che anche in un mondo globalizzato sia l’artista internazionale a mettersi al servizio del pubblico, e tutte le sue scritte autografe, tracciate in libertà e pure con qualche correzione in opera. Un artista pro casalinga, magari di Chiavari giusto per essere nella provincia giusta. 
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Peter Fend, Yona Friedman – Filling the absence – installation view – courtesy Pinksummer e gli artisti – photo Alice Moschin
Tornando a bomba, che c’entra con tutto questo con l’immagine bianco/nero della arcinota Fontana di Duchamp? C’entra, nella misura in cui l’artista riesce ha produrre lavori concettualmente suggestivi suggestionando sé stesso. Riportando questa sua compiacente auto-suggestione a spalmarsi tra le frasi topiche geometricamente perfette, su di una cartina politica della Valpolcevera e sulla sottostante riproduzione 3d in creta della stessa. Fend guarda e ragiona, tira fuori nessi nascosti alla vista, ma palesi come fossero – già che siamo in Liguria – l’uovo di Colombo. La Valpolcevera, area locale passata dall’anonimato assoluto alla una notorietà internazionale, nella testa dell’artista ha la stessa conformazione dell’opera duchampiana, per una similitudine artistico-geografica di cui speriamo solo nessuno se la prenda a male, ché alla fine pur sempre di un orinatoio si tratta (i genovesi son buoni e cari, ma se li tocchi su certe cose…). 
No, nessuno si è dimenticato di Friedman. Alla veneranda età di 96 anni il suo intervento è più controllato rispetto a Fend, protagonista nel video-documentario di Elisa R. Linn e Lennart Wolff e di una parete a lui dedicata, dove parla attraverso uno studio sulla biosfera e tre piccoli “fake rendering” svolazzanti incentrati sul viadotto di Morandi. Perché definirli con quell’inglesismo non ufficializzato e pertanto così arbitrario? Perché sono falsi nella misura in cui l’assuefazione al consumo dei rendering propriamente detti (come quelli del nuovo ponte di Renzo Piano tanto per rimanere nell’orbita genovese) si rende fuorviante nella percezione degli stessi, che in realtà riempiono e ricostruiscono il crollo in maniera plausibile e utopistica al tempo stesso, con un intreccio di tratti bianchi segnati a mano libera. Un’azione di sutura non codificata da un programma, ma riportata in copia, con tanto di dati e firma sul retro, in virtù di una potenziale diffusione fondamentale nello statuto operativo dell’architetto ungherese. 
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Peter Fend, Yona Friedman – Filling the absence – installation view – courtesy Pinksummer e gli artisti – photo Alice Moschin
Riempire quel vuoto imprevisto, modificare l’immagine di una cesura resa virale dai social media; essere il Friedman della situazione, ma con la libertà di esprimersi apertamente, sentimentalmente, avendo la possibilità di esorcizzare quell’immagine elaborandola per una call che riporta l’arte visiva a territorio di scambio comunitario. «Il progetto di Piano, così immediato subito dopo il crollo, pur essendo necessario ha ghiacciato la riflessione sull’accaduto», così Pennone ci spiega le motivazioni ed il ruolo che in Pinksummer si è dato a questa iniziativa – con deadline fissata per il 15 marzo – aperta a chiunque voglia dare un senso e un significato personale a quell’immagine. I lavori saranno esposti a rotazione, comprendendo quelli di chi fa diventare i due monconi rimasti in piedi cascate, chi utilizza lo spazio per moltiplicare – polemicamente? – gli edifici (la cementificazione selvaggia è un altra annosa problematica della città), e quelli di artisti puri come il duo Milotta/Donchev o Paola Anziché. 
Finché quel buco nel panorama della Genova moderna sarà destinato a sparire, a restare come singola memoria quando del viadotto progettato da Morandi non rimarrà più nulla, ché la contemporaneità non ci consente di adorare i ruderi con spirito neoclassico. Mi piace pensare che questa riflessione attivata da Pinksummer serva anche a ricordare 43 poveri cristi che non ne potevano nulla, allenando una memoria a lungo termine sui fatti. Pratica che per noi italiani rischia d’essere più utopica di pezzi di ponte fluttuanti.
Andrea Rossetti

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