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Dopo aver partecipato all’evento “Il Popolo della Notte 2000” (il 23 settembre scorso), organizzato dall’Associazione “Mecenate ‘90” e Radio Dimensione Suono, buttar giù alcune righe di plauso per simili manifestazioni sembrerebbe (ed è) cosa banale, poiché personalmente non ho mai sentito dire da alcuno che l’arte, o la cultura in genere, siano inutili o addirittura dannose. Ma se questa manifestazione – e credo che sia corretto parlare di “evento” –, anche se supportata da grandi enti culturali (gallerie e musei nazionali), da net-work radiofonici e televisivi (RDS e Mediaset) e da noti personaggi della cultura e dello spettacolo, “va in onda” soltanto una volta l’anno, ciò significa che pur essendo tutti d’accordo “qualcosa ancora qui non va”, tanto per usare le parole d’una famosa canzone di Lucio Dalla.
Anche ad ascoltare le parole della ministra per i Beni Culturali, Melandri, si è trattato di una magnifica e riuscitissima serata, che ha posto in contatto diverse generazioni e diverse “culture” – credo si riferisse a quelle cosiddette “alte” e quelle “basse”, o “pop” – e proprio perciò da ripetere, magari con cadenza mensile anziché annuale. Sì, va bene, ma il problema di fondo non solo rimane, ma si evidenzia sempre di più, come l’altro degli italiani tutti “letterati” e non “lettori”. Rischiamo di assistere al vorticare del cane che si morde la coda, ossia ad una perduta capacità di rintracciare chiaramente differenze fra cause ed effetti della mancata vicinanza all’arte – meglio sarebbe dire le “arti”.
Il fatto poi di servirsi di “espedienti” (concerti di pop-stars), ancorché a fin di bene, per avvicinare la gente all’arte, non ci esime – mi riferisco soprattutto agli addetti ai lavori – dal capire e risolvere i motivi della disaffezione. A mio modo di vedere, quindi, il primo insegnamento da trarre dal successo di manifestazioni artistiche “spurie” come “Il popolo della Notte 2000”, dovrebbe essere quello di captare finalmente uno squilibrio nel logico rapporto fra “domanda” (del pubblico) e “offerta” (degli operatori culturali), soprattutto per ciò che concerne l’arte contemporanea.
La gente oggi vuole capire. Se siamo riusciti ad abbattere altri malcostumi nazionali, come quello del “politichese”, ad esempio, dobbiamo anche riuscire a far ri-innamorare la gente dell’arte; ma per farlo è necessario farsi capire. L’accessibilità, quindi, l’intellegibilità e la “credibilità” del linguaggio sono e restano condizioni ineludibili per il successo di questo progetto (sempre ammesso lo si voglia realizzare) e in tal senso queste manifestazioni sono davvero benvenute. Una simile evoluzione dovrebbe però seguire anche su saggi e cataloghi, molto spesso elaborati in modo incomprensibile e noioso.
È dal contatto periodico con gli artisti e le gallerie che scaturisce l’amore per l’arte. L’ideale sarebbe quindi che fossero le scuole, gli insegnanti a condurre (da subito) gli studenti presso gli ateliers degli artisti e le gallerie, generando così, nelle loro menti e nei loro cuori, quel “contatto”, quella “possibilità”, quell’”accessibilità”, appunto.
D’accordo, allora, con Melandri quando dice che “uno se non è mai entrato in un museo da piccolo, difficilmente lo farà da grande”: ma questa è “analisi” (corretta, peraltro), cara ministra, forse più consona però ad osservatori esterni che a membri del Governo, dai quali ci si aspetterebbe di ascoltare non critiche, ma (buone) notizie.
Daniele Iosimi
[exibart]
Sono stato alla manifestazione. Spettacolosa. D’accordo con tutte le rimostranze del critico Iosimi…