Il senso del ready made | per Germano Celant

di - 7 Giugno 2013
Semplice remake o rilettura di una delle mostre più rivoluzionarie dell’ultimo mezzo secolo? Difficile rispondere a questa domanda, dopo aver visitato “When Attitudes Become Form:Bern1969/Venice 2013”, la mostra curata da Germano Celant con Rem Koolhaas e Thomas Demand a Cà Corner della Regina, sede della fondazione Prada a Venezia, che ripropone la rassegna ordinata da Harald Szeeman alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Ancora più arduo farlo dopo aver discusso con Celant sulle ragioni che gli hanno impedito di ripresentare la totalità delle opere originali, fermandosi al 90 per cento  E che ne è stato dell’ultimo 10 per cento, uno scoglio invalicabile anche per uno dei più lucidi e consapevoli curatori italiani attivi a livello internazionale? «Nonostante i miei sforzi, alcune opere erano irraggiungibili», dichiara Celant. Quali? «Cement Trough, un solco che Michael Heitzer aveva scavato nel giardino della Kunsthalle: sono stato a trovare l’artista nel deserto del Nevada, ma mi ha confermato che non aveva senso riproporlo a Venezia», ammette il  curatore. «Stessa situazione per Warmeplastic (1969), un feltro di Joseph Beuys di proprietà di un importante collezionista europeo che lo considera un pezzo fondamentale della sua collezione, e quindi non lo presta mai. Con Bruce Naumann invece è andata in modo diverso: era impossibile esporre Untitled (1965), una scultura in vetro che si sarebbe polverizzata nel viaggio fino a Venezia».
Le precisazioni di Celant puntano il dito sul senso dell’operazione, apparsa fin dall’inizio estremamente ambiziosa. «L’intento è ridare vita al processo espositivo con cui la mostra fu realizzata, così da superare la mediazione dei documenti fotografici e filmici, e poterlo esperire e analizzare “dal vero” esattamente com’era, seppur trasportato dallo ieri all’oggi». Cosa vuol dire quindi trasformare una mostra in un ready-made di sapore storico, quasi archeologico? Stranamente, l’operazione appare valida ma in una direzione diversa rispetto alle premesse iniziali. Se l’allestimento delle opere nelle sale della Kunsthalle, ricostruite all’interno dell’edificio settecentesco di Cà Corner, può apparire una forzatura, si conferma  interessante ed utile analizzare opera per opera, per comprendere appieno come gli artisti abbiano reagito all’invito di Szeemann, basato sul pieno e totale rispetto del «processo liberatorio del fare, senza limiti, difese, piedistalli e costruzioni perimetrali, in un campo d’incontro dialettico tra artista e curatore, tra eventi e architettura».
Una libertà che, possiamo constatare oggi nelle sale della mostra, gli artisti avevano vissuto e interpretato in maniera differente. Se per alcuni lavorare con questa impostazione aveva rafforzato l’energia delle opere, consolidata dal dialogo con le proposte fisicamente e concettualmente più vicine (come nel caso di Artschwager, Kounellis e Serra nel salone d’ingresso al pianterreno o di Barry Flanagan con Rope Sculpture, una corda che attraversava le due sale, sempre al pianterreno), altri invece avevano preferito optare per opere più isolate, quasi autoreferenziali, ma spesso di profondo contenuto poetico: è il caso, ad esempio,  di Felt (1967) di Robert Morris, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 di Alighiero Boetti o Con un passo (1968) capolavoro di Emilio Prini. Altri ancora lo avevano interpretato  come un momento di riflessione legato al rapporto con il quotidiano, inteso in senso metaforico, sociale o antropologico: Art by Telephone (1967) di Walter De Maria (un telefono sul pavimento dal quale l’artista poteva telefonare in qualunque momento) o Untitled Azione Kunsthalle Bern 1969, azione di Paolo Icaro che consisteva nello spegnere la luce al museo durante l’inaugurazione per il tempo necessario a pronunciare una breve dichiarazione d’amore, che non fu eseguita allora a Berna ed è stata eseguita oggi a Venezia.
Vista in questa prospettiva, la mostra assume un senso legato agli atteggiamenti degli artisti e alle loro reazioni alle diverse situazioni espositive. Una realtà (e una memoria) particolarmente interessante analizzare in relazione al nostro tempo, dove è sempre più difficile distinguere il confine tra vero e falso, inutile e necessario, artista e curatore. Per parafrasare Szeeman, Today attitudes are still forms or only behaviours?

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  • E' un privilegio per gli addetti ai lavori(storici dell'arte,critici e artisti)che trovano questa mostra quasi sempre citata nei testi come fondamentale per un rivoluzionario cambio di prospettiva storica poterla visitare oggi così come fu allora presentata(anche se manchevole del 10%).Una memoria"vivente"che ognuno potrà rileggere,secondo i propri strumenti,alla luce e a confronto delle attuali esperienze

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