Indipendenza concettuale, dipendenze creative. Universo Factory a Vittorio Veneto

di - 18 Maggio 2024

L’importanza dell’apertura di nuovi spazi indipendenti risiede in un vasto programma di rigenerazione culturale. Fondamentale, se rapportato all’immenso patrimonio di edifici in disuso, fatiscenti, che richiedono dei cambiamenti radicali attraverso un pronto intervento. La necessità di poter sperimentare, costruire nuovi spazi di ricerca, è profondamente collegata al bisogno di uscire dai circuiti tradizionali dell’arte per poter veicolare un messaggio libero da interessi di varia nartura. Bernardelli e Poli, in Mettere in scena l’arte contemporanea (Johan & Levi, 2016), mettono in evidenza come il contesto influisca sulla stessa natura della produzione dell’arte, un’interdipendenza tra opera d’arte e spazio espositivo.

Simone Ceschin è il curatore di Universo Factory, uno spazio indipendente a Vittorio Veneto che si propone di progettare interventi site specific per dialogare con l’importante contesto in cui sono collocate: un ex-setificio ottocentesco.  Per riportare in vita questo luogo, che ha subito lavori di restauro conservativo, gli artisti creano progetti che coinvolgono le comunità locali. Il programma espositivo vede la presenza di artisti emergenti e affermati, con un particolare focus sulla selezione di artisti dalle accademie – come l’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Un luogo per la convergenza, attraversato da dimensioni differenti: si sovrappongono tempo e spazio; temporalità diverse si accolgono e oppongono; culture eterogenee si incontrano. Le opere non popolano asetticamente questi luoghi ma li abitano. Ne alterano la percezione e ne mutano la natura per sviluppare nuovi impianti di significato. Gli artisti si mostrano lontani da pressioni proprie del mercato, un’indipendenza concettuale fondamentale allo sviluppo della ricerca, mentre coltivano una dipendenza creativa, che vede lo spazio influenzare la concezione della stessa pratica artistica. In questa intervista a Simone Ceschin, ripercorriamo l’origine di questo luogo, approfondendo il dibattito su quale differenza ci sia tra l’ospitare interventi in questa tipologia di spazi, piuttosto che in luoghi ordinare per l’arte.

Veduta dell’interno di Universo Factory, Via Savassa Bassa 4, Vittorio Veneto

Come nasce Universo Factory? Quale è il suo obiettivo?

«Universo Factory nasce dal progetto del fotografo Andrea Gottardi sviluppatosi in seguito con la mia collaborazione. Il mio lavoro di curatore d’arte contemporanea, focalizzato sull’arte urbana, la riqualificazione degli spazi e in generale gli spazi espositivi alternativi, si adattava alla visione originaria di Andrea del progetto. Lo spazio nasce quindi dalla riqualificazione di un ex setificio ottocentesco in uno spazio espositivo indipendente.

Universo Factory svilupperà un focus sulle nuove generazioni di artisti nazionali e internazionali, attingendo dalla Accademie di Belle Arti e sostenendo gli artisti nella realizzazione di mostre site specific all’interno dello spazio espositivo. L’obiettivo verte nella realizzazione di una serie di mostre personali o collettive, che possano includere i diversi media che caratterizzano il movimento dell’arte contemporanea odierno. Lo spazio fortemente poliedrico si presta ad ospitare molteplici prospettive proposte dagli artisti selezionati per le residenze».

Quale è il senso dell’associazione tra Universo, che implica un pensiero lato che cerca l’irraggiungibile in un certo senso, e Factory, che presuppone una riflessione più tecnica e, per l’appunto, industriale?

«Sarebbe interessante chiedere ai proprietari della fabbrica cosa li abbia spinti a dare ad un setificio un nome così ambizioso. Universo, in origine, era il nome della fabbrica. Nell’ottica di mantenere e custodire l’identità dell’edificio, abbiamo deciso di riqualificarlo senza decontestualizzare la sua natura; perciò, abbiamo deciso di mantenere lo stesso nome. Al contempo, abbiamo aggiunto un elemento che rimanda ulteriormente alla realtà pratica e industriale del luogo. Dona all’edificio quella connotazione di spazio industriale oggi adibito a espositivo».

Veduta dell’esterno di Universo Factory, Via Savassa Bassa 4, Vittorio Veneto

Lo spazio, un ex setificio ottocentesco, obbliga una prospettiva nuova nel concepire delle esposizioni. Già di per sé, il rapporto con un contesto preciso è una forma di spazio ben diversa rispetto al tradizionale white cube. Un modello, quello del white cube, che si è imposto nella seconda metà del secolo scorso e che ormai sta già vivendo una forte decadenza. Quali sono i pregi e le differenze che questo vostro approccio metodologico possono far emergere?

«Il concetto di White Cube, che prevede l’utilizzo di un’illuminazione uniforme, pareti bianche e spazi vuoti intorno alle opere, porta alla creazione di uno spazio neutro e asettico in cui l’attenzione dello spettatore è fortemente concentrata sull’opera. Questo approccio omogeneo può limitare la diversità e vitalità di un’opera e secondo alcuni può favorire un approccio consumistico e commerciale all’arte.

L’approccio metodologico di concepire esposizioni site-specific in uno spazio come il nostro offre un contesto intrinseco che può arricchire l’esperienza artistica. L’architettura del luogo può diventare parte integrante delle installazioni proposte, aggiungendo ulteriori strati di significato. Uno spazio non convenzionale può stimolare la creatività e l’innovazione, incoraggiando approcci più flessibili rispetto alla rigidità del white cube, ispirando gli artisti a esplorare nuove forme di espressione artistica che si integrino organicamente con l’ambiente circostante.

È giusto, inoltre, guardare anche fuori dalla propria finestra, alla comunità locale dove l’ex setificio, l’ultimo rimasto qui in zona, affonda le proprie radici. Riqualificare uno spazio del genere può contribuire a rafforzare i legami tra l’arte e la comunità, creando un senso di appartenenza e coinvolgimento più profondo».

Veduta dell’interno di Universo Factory, Via Savassa Bassa 4, Vittorio Veneto

Già Bryan O’Doherty, in Inside the white cube, ha fatto emergere quanto il modello non fosse più sufficiente ad accogliere le forti innovazioni di alcuni gruppi come i Land Artists o i Minimalisti. Lo spazio insiste radicalmente sull’opera modificandone non solo la percezione, ma anche il contenuto. Gli artisti si confrontano con un diverso che, in qualche modo, è già stabilito a priori dal vostro statement: promuovere la diversità. In che modo spazio e significato si intrecciano nel proporre nuove associazioni che possano, effettivamente, promuovere questa diversità? Quale è la necessità di queste riflessioni?

«La relazione tra spazio espositivo e significato è cruciale per promuovere la diversità artistica e favorire nuove associazioni. All’interno del nostro contesto lo spazio dev’essere concepito come un terreno fertile per l’incontro tra innovazione e diversità nell’arte contemporanea. Lo spazio è pensato per accogliere e stimolare la produzione artistica soprattutto di artisti emergenti, ma anche affermati, che sentono di avere questa esigenza in un luogo flessibile e ricettivo ai loro bisogni.

In questo senso, l’utilizzo di uno spazio espositivo non convenzionale favorisce e stimola ulteriormente una maggiore diversità e innovazione nell’arte contemporanea. In particolare, il nostro progetto si focalizza sulla riqualificazione di un’ambiente ricco di storia, dandogli nuova vita attraverso un progetto artistico che crei una connessione profonda tra il luogo e le opere esposte in un dialogo continuo e reciproco. Il programma delle mostre che inaugureremo nei prossimi mesi è strutturato proprio per proporre opere e installazioni site-specific che esaltano questa connessione tra spazio e opere.

Il white cube è spesso progettato per mettere in risalto esclusivamente le opere, contribuendo a incutere nello spettatore un senso di isolamento. Inoltre, la percezione di formalità può generare un senso di disagio a chi non è solito frequentare ambienti artistici, portando le persone a percepire l’ambiente come troppo distante o inaccessibile. La natura del nostro spazio ci permette di instaurare un’atmosfera più informale rendendo la fruizione delle opere più accessibile e spontanea, in linea con i percorsi curatoriali contemporanei.

Il proposito è quello di presentare al pubblico uno spazio che possa offrire esperienze artistiche significative attraverso una programmazione inclusiva di artisti con diversi background, etnie e provenienze geografiche. Uno spazio ricco di esperienza, curatoriale e artistica, accessibile ad un pubblico più ampio possibile».

Come le vostre dichiarazioni si intrecciano con la vostra programmazione? Se vuoi citare qualche esempio di esposizioni o workshop o attività che svilupperete nel corso del tempo.

«Il 1° giugno 2024 è prevista l’inaugurazione della mostra degli artisti Edoardo Ongarato ed Enrico Antonello, che dialogheranno con Plam Creative Studio di Ferrara. I due artisti sono legati all’immaginario reietto del settore industriale e della graffiti culture. Il suono e la luce sono gli aspetti principali della ricerca di Antonello che, attraverso le sue installazioni multimediali, presenta aspetti legati all’immaginario industriale, con riferimenti estetici e funzionali che ritroviamo nelle correnti architettoniche del decostruttivismo e del brutalismo. La ricerca di Ongarato si inserisce all’interno di quella sfera che indaga le esperienze extra sensoriali, attraverso degli interventi in luoghi non tradizionali. Riguarda il recupero della memoria arcaica di immagini rituali che divergono in queste operazioni di deframmentazione dello spazio, scardinando i criteri abituali e consentendo l’accesso ad una percezione più profonda da parte dello spettatore dello spazio che abitano».

In un panorama frastagliato in cui, per citare Germano Celant, prevale un mostrismo in cui la quantità ha soppiantato la qualità a discapito di una fruizione più immediata e spesso spettacolarizzata dell’arte, il fenomeno degli spazi indipendenti si inserisce nella necessità di aprire un nuovo dibattito sull’arte. Che è, infondo, fondamentale alla promozione di uno sguardo e di un pensiero critico. Che cosa fa Universo Factory per stimolare questo dibattito? Quali sono le necessità, paradigmatiche, che questo spazio indipendente cerca di approfondire?

«Il nostro progetto si impegna attivamente a stimolare il dibattito critico sull’arte attraverso una serie di iniziative e pratiche volte a promuovere uno sguardo riflessivo e un pensiero critico nell’esperienza artistica. In un panorama in cui prevale il “monstrismo”, un concetto che potrebbe ampliarsi anche su altri fronti, non solo all’arte, ritengo sia fondamentale creare uno spazio che favorisca la contemplazione, la riflessione, l’analisi e il dialogo.

Per questo per noi è importante, oltre a presentare una programmazione curatoriale mirata, organizzare regolarmente eventi, conferenze e dibattiti in cui esperti del settore e il pubblico possono discutere apertamente di temi artistici, estetici e concettuali. Questi incontri offrono l’opportunità di esplorare idee, condividere prospettive e approfondire la comprensione dell’arte contemporanea.

In particolare, ci impegniamo attivamente a promuovere un ulteriore dialogo attraverso collaborazioni interdisciplinari e collaborazioni con enti affini quali istituti culturali, accademie di belle arti, e altri spazi indipendenti nella consapevolezza che l’interazione arricchisce le proposte.

Inoltre, uno degli elementi chiave della nostra missione è la riqualificazione dello spazio stesso in cui operiamo. Universo Factory si impegna non solo a promuovere un dibattito critico sull’arte, ma anche a trasformare fisicamente l’ambiente in cui questo dibattito ha luogo. Questo significa creare aree flessibili e adattabili che possano ospitare una varietà di espressioni artistiche con artisti, designer e architetti che ci permettono di stabilire una connessione più profonda con la comunità locale, trasformando un luogo precedentemente trascurato in un centro vitale per la cultura e l’arte, ricordando quindi il valore sociale che l’arte può assumere».

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