Squallide periferie, esseri umani corrotti, disperati o eccessivamente ingenui, personaggi privi di cultura, eleganza e gioia di vivere. Il cinema italiano d’autore nel 2018 racconta un Paese senza speranza, privo di qualsiasi forma di moralità e di qualunque forma di fiducia verso un futuro dignitoso. Se negli anni Sessanta abbiamo conquistato il mondo con il Neorealismo, ora ci siamo autocondannati ad una forma di marginalità, che sembra aver fatto scuola a tutte le latitudini, senza via di scampo.
Questo è il quadro che scaturisce dalle ultime quattro pellicole Made in Italy: Loro 1 e Loro 2 di Paolo Sorrentino, Dogman di Matteo Garrone, Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher e, last but not least, La terra dell’abbastanza dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo.
Un’Italia che arriva sulla scena internazionale solo in negativo assoluto, come una immensa periferia dove si aggirano i protagonisti, quasi sempre singoli o al massimo in coppia, intorno ai quali sono incentrate le strutture del film, quasi sempre piuttosto povere e prive di complessità. Solo è Marcello che trascorre le sue giornate a lavare cani, pranzare con un gruppo di balordi e subire i soprusi dell’ex pugile Simone, su una sordida e lurida spiaggia campana. Solo è Lazzaro dallo sguardo incantato, un po’ San Francesco un po’ Useppe di Elsa Morante, che sorride ad una vita senza storia né prospettive. Soli sono Mirko e Manolo, bulletti di periferia che vivono di espedienti prima di entrare, quasi per caso, nel sordido e miserabile giro della mala romana. E soli sono, in fondo, anche Sergio Morra, protagonista di Loro 1, e lo stesso Silvio Berlusconi, al quale è dedicato Loro 2.
Tutti i 4 registi incentrano i loro film su un’attenta esplorazione dei volti di questi personaggi, indugiando in ogni ruga, piega, ciuffo di capelli, espressione facciale in ogni circostanza possibile. Scene che occupano una buona percentuale di film dove i dialoghi sono ridotti al minimo e molto è affidato alla fotografia: eccessiva e esasperata in Sorrentino e Garrone, pauperistica e vintage in Rohrwacher, sincopata e cattiva in D’Innocenzo.
Troppe le similitudini per non identificare un sentire comune, un vocabolario che insiste sulle stesse tipologie e modalità , se pur con le dovute differenze: se lo stile “Sorrentino” racconta un mondo di eccessi materiali con un cinismo privo di qualunque forma di idealità esaltando il servilismo tipico del nostro popolo, Garrone incastona il suo fragile e delicato “canaro” in una giungla di uomini che vivono come parassiti ai limiti della legalità, mentre Rohrwacher tratteggia il suo inconsapevole Lazzaro come una creatura senza tempo, privo di qualunque forma di orgoglio e amor proprio. Forse i più realistici nella loro cattiveria ferina e animale, frutto di noia e ignoranza, sono Mirko e Manolo, che i fratelli D’Innocenzo pongono in una condizione di perenne bilico tra abisso e redenzione.
Stile, canone o necessità? Siamo proprio certi che il cinema di un paese che ha prodotti strepitosi film corali come La Terrazza, La Notte di San Lorenzo, Novecento, Amici miei o C’eravamo tanto amati si sia ridotto a descrivere se stesso come una terra buia e squallida, dove non c’è traccia del suo glorioso passato culturale, sostituito da una morbosa forma di autocompiacimento della propria decadenza? Siamo veramente così abbrutiti da non avere più voglia di alzare la testa? Siamo davvero convinti di dover mostrare solo i nostri lati peggiori per guadagnarci un briciolo di attenzione dai festival internazionali? Veramente l’unica carta da giocare è quella dell’autocommiserazione? A guardare questi quattro film, sembra proprio di sì. Ma ne siamo veramente convinti?
Ludovico Pratesi