Kassel, una Babele di storie

di - 9 Giugno 2012
«Ci sono territori dove le politiche sono inseparabili da un’affinità globale, sensuale ed energetica, tra la ricerca attuale in campi scientifici, artistici e altre forme di conoscenza sia antiche che contemporanee». Lo statement di Carolyn Christov Bagarkiev che introduce la tredicesima edizione di Documenta indica chiaramente la vocazione onnicomprensiva di una rassegna monstre, che riunisce le opere di 130 artisti dislocate in tutta la città di Kassel, dalle sedi istituzionali al parco fino ad alcuni spazi nel tessuto urbano. Per non parlare delle sedi extraeuropee, che vanno da Kabul in Afghanistan al Cairo in Egitto fino a Banff in Canada, dove seminari, mostre e discussioni approfondiscono argomenti e tematiche già presenti a Kassel, in una Documenta generosa e articolata, che nella sua labirintica vastità rischia di perdere le coordinate strutturali e fondanti, che si diramano fondamentalmente da un’unica grande questione: la formazione della memoria. Memoria intesa da una parte come luogo dell’esperienza collettiva e oggettiva di tipo razionale, che si sedimenta attraverso la storia e la scienza e, dall’altra, come territorio soggettivo dell’irrazionale e del fantastico, che si manifesta attraverso percorsi emotivi legati al viaggio – inteso come displacement spazio-temporale – o alle diverse forme di ritualità, dal gioco alla magia.
I due punti cardinali di una geografia complessa e a tratti contraddittoria, sono il  Fridericianum, che si dirama dalla rotonda centrale, definita dalla Christov come “il cervello”, e la Hautbanhof, la piccola stazione ferroviaria a nord della città. Il “cervello” sembra prendere spunto dall’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, e consiste in una sala semicircolare dove vengono proposte relazioni tra oggetti, documenti, immagini e opere d’arte, in una sorta di archivio trasversale che unisce le nature morte di Giorgio Morandi con gli Oggetti indistruttibili di Man Ray, accostati alle “principesse battriane”, figurine in steatite ritrovate in Asia Minore e databili intorno al terzo millennio avanti cristo. Una sorta di campionatura ideale dove l’arte incontra la storia, basata «sulle nostre relazioni con gli oggetti e sulla nostra fascinazione per loro» (Christov-Bakargiev) ed è la chiave di molte opere presenti al Fridericianum, come l’intenso The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures (2012) dell’algerino Kader Attia, un’installazione concepita come il deposito di un museo di manufatti etnici danneggiati e rotti, o What Dust will Rise? (2012) dell’americano Michael Rakowitz, basato sulla distruzione dei libri durante la seconda guerra mondiale a Kassel e a Kabul nel corso dell’attuale guerra in Afghanistan.
Kassel-Kabul: un legame simbolico sottolineato dalla presenza di due sale dedicate ad Alighiero Boetti e Fabio Mauri, due artisti storici che la Christov ha eletto a numi tutelari della sua Documenta. La passione di Boetti per Kabul viene riletta attraverso il dialogo immaginario e immaginato con il messicano Mario Garcia Torres, che ha indagato la vicenda del One Hotel, l’albergo aperto da Boetti nella capitale afgana durante gli anni Settanta, mentre la lucida sala monografica di Fabio Mauri, dominata dalla presenza dell’installazione L’universo, come l’infinito, lo vediamo in pezzi (2009), introduce la questione ebraica durante il Nazismo, un altro mainstream di questa Documenta.
Se il Fridericianum costituisce quindi la parte intellettuale della mostra, la Hautbanhof si rivela esserne il contrappunto emotivo, dove le opere sono inserite in un contesto ambientale romantico e decadente, animate da un’emotività intima, adombrata dalla memoria dei treni carichi di ebrei deportati nei campi che partivano da questa stazione.
Qui, tra i binari che si aprono verso una natura urbanizzata, tra il suono di You are not alone (2009-2011) dell’artista scozzese Susan Philipsz e After Banhof video walk (2012) la passeggiata guidata dalla voce calda ed evocativa di Janet Cardiff, si scoprono opere preziose e intense. Da non perdere l’installazione della cipriota Haris Epaminonda insieme all’americano Daniel Cramer, che hanno trasformato alcuni uffici abbandonati della stazione in un labirinto di ambienti dove oggetti, fotografie, video e sculture indagano le sottili trame di una narrazione sussurrata che tiene insieme in un’armonia perfetta percezione, pensiero e sensibilità. Più prevedibile The refusal of time (2012) l’opera di William Kentridge che rilegge le relazioni tra società, arte e progresso industriale tra Otto e Novecento, puntuale e rigoroso il video Secretion (2012) dell’irlandese Willi Doherty, che mostra un bosco paludoso nei pressi di Kassel, contaminato da esperimenti chimici compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre l’installazione Momentary Monument IV (2012) di Lara Favaretto appare inutilmente spettacolare, pur inserendosi in molto bene nell’ambiente della Banhof.
Dopo una visita al cervello e al cuore della Documenta 13, la mostra si dirama attraverso decine di spazi diversi, in un’articolazione che necessita di tempi lunghi e notevole concentrazione. Nell’impossibilità di analizzarli tutti, segnaliamo le opere più in sintonia con lo Zeitgeist della rassegna: all’interno degli spazi verdi e bucolici dello Karlsaue Park sono da non perdere Untitled (2012) del francese Pierre Huyge, un inquietante non-luogo abitato da esseri viventi e sculture dalle dinamiche sorprendenti, così come The History of  Europe (2011) del cherokee Jimmie Durham, che riprende il rapporto tra oggetti e guerre, mentre con Here & There l’italobrasiliana Anna Maria Maiolino arreda la antica casa del giardiniere del parco con centinaia di fischietti in terracotta realizzati a mano, abbinati a canti di uccelli tropicali registrati,  provenienti dagli alberi che circondano la casa.
Nell’ambito performativo da segnalare l’azione della giovane Chiara Fumai all’interno della sua “Casa dell’Esposizione Morale”, dove l’artista rievoca personaggi come la schiava Zalumma Agra e la donna barbuta Annie Jones, entrambe presenti nel museo dedicato all’Ottocento americano di P.T. Barnum. Ma l’opera che sembra incarnare il vero spirito di questa Documenta espansa e romantica, concepita come un enorme archivio di storie collettive e individuali, dove si intrecciano formule scientifiche e superstizioni popolari, oggetti devastati dalle guerre e messaggi subliminali, diari e feticci, in un tentativo di mettere ordine senza voler rinunciare al disordine (per parafrasare Boetti) è la performance musicale di Tino Sehgal all’interno della Huguenott House, un edificio abbandonato datato 1826, dove un gruppo di ragazzi al buio cantano e ballano fino a spingere fuori dalla porta il pubblico, senza mai smettere di danzare. Perché cercare un solo fil rouge nella vita quando ce ne sono miliardi?

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