Diceva sant’Agostino di sapere cosa fosse il tempo, ma se qualcuno gli chiedeva di spiegarlo, non sapeva rispondere. William Kentridge, invece, un’idea chiara ce l’ha. Sicuramente il tempo per lui non è quello lineare, che si accumula lungo una striscia rettilinea che parte sia dall’origine dell’universo fino all’ora X della sua eventuale distruzione o dalle 5 del pomeriggio alle 6.15. Lineare, appunto, sebbene più o meno breve o potenzialmente infinito. Ma la faccenda non cambia.
Un tempo del genere è tiranno, decisamente odioso, è quello per esempio scandito ossessivamente da grandi metronomi, da ingranaggi sempre uguali e quasi compulsivi che ci ricordano non solo banalmente che il tempo passa, ma che noi dobbiamo stare sull’attenti rispetto ad esso. Questo tempo maledettamente tiranno, ostile ha anche delle implicazioni politiche che per esempio obbligano varie parti del mondo a un tempo unico, quello dei fusi orari, per cui Parigi ha la stessa ora di Berlino, Calcutta quella di Karachi. “Ridateci il nostro sole!”, esclama Kentridge alla fine del suo spettacolo, Refuse the hour, che è andato in scena al teatro Argentina di Roma purtroppo per sole quattro sere (dal 15 al 18 novembre nell’ambito del RomaEuropa festival), mentre al MAXXI si inaugurava la mostra “Vertical thinking” al cui centro è l’immaginifica installazione The refusal of time, già presentata alla scorsa (d)OCUMENTA 13.
Per Kentridge il tempo è tutta un’altra cosa. È circolare, un movimento che torna incessantemente su se stesso. Inafferrabile, quindi probabilmente, perché non si può isolarlo in un singolo punto, ma anche, forse, foriero di qualcosa di positivo: non ci sfugge, torna su stesso e noi, forse, possiamo cavalcarlo. Esattamente come fa Kentridge, in video e in scena, che sale su una sedia dopo l’altra, ma sempre la stessa, che rifà infinite volte lo stesso movimento, che riporta la moviola avanti e indietro per esplorare esiti nuovi e imprevisti di una stessa azione.
Questa qualità del tempo attraversa, e feconda direi, tutta la sua arte. Sia che faccia teatro, musica, animazione o installazioni. E la libera dall’obbligo di un tempo e di un pensiero unico, lineare, banale alla fine. Per questo il suo essere artista “totale”, come un po’ frettolosamente viene definito, può viaggiare con leggerezza e disincanto da un linguaggio a un altro. Attraversandoli come fossero ambienti di un’unica azione. Riscattandoli da una visione univoca per aprirli a una molteplicità di visioni. Dove anche la “cancellatura”, non è tanto negazione, ma possibilità di germinare qualcos’altro.
Questo è quello che affascina di più del suo lavoro, qualcosa da cui trapela la generosità di un artista ormai maturo, ma non vecchio. Quasi fanciullo, in certi momenti. Capace di mettersi in gioco, come ha fatto al teatro Argentina, recitando (ma in realtà non recitava, raccontava, ragionava a voce alta), e nei video dove c’è spesso un alter ego (un tempo l’avido capitalista Soho Eckstein, oggi, cambiato il clima politico del Sud Africa, suo Paese d’origine, è solo un doppio attraverso cui si osserva) e nei disegni che confermano un mano molto felice.
Questa leggerezza e generosità hanno fatto sì che Kentridge accettasse di buon grado di tornare sull’installazione presentata a (d)OCUMENTA per adattarla agli spazi, non propriamente facili, del MAXXI. “Vertical thinking” prende corpo, infatti, nell’ultima sala di Zaha Hadid, quella con il pavimento obliquo, in salita per chi vi arriva e in discesa per chi se ne va. Uno spazio difficile, perché, al di là del capriccio d’autore, la sala risulta in realtà molto squadrata e ovviamente alquanto perturbante. Ma lui c’è entrato con disinvoltura, rimpicciolendo The refusal of time, disponendo centralmente le sedie per seguire la sarabanda di immagini e di visioni proiettate circolarmente alle pareti dove, a passo di danza e con musica, si snocciola una storia tra tante storie, lasciando al centro l’installazione che segna ancora il tempo, ma con un moto che sa di antico, fatta com’è di legno, dall’aspetto di un’inoffensiva macchina medievale. Nulla a che vedere con gli antipatici metronomi e ingranaggi che aprono la grande video proiezione. «Ci ha detto che riadattare The refusal of time agli spazi del MAXXI, gli ha permesso di riflettere sul lavoro fatto», racconta Giulia Ferracci, curatrice della mostra. Dove peraltro finalmente si vedono delle belle opere (di Kentridge) entrate nella collezione del museo. La poeticissima installazione-teatrino per le scenografie del Flauto magico (presentato al San Carlo di Napoli nel 2005), dove anche qui un moto circolare di una specie di orologio apre a scene diverse dove, di nuovo, i movimenti tornano su se stessi e da un’immagine ne nasce un’altra e poi ogni tanto si libra in alto, rovesciata o miracolosamente appesa a qualcos’altro, prendendo surrealmente il volo come nei quadri di Chagall. E poi due gran bei disegni che il MAXXI non aveva mai esposto E l’arazzo visto per la mostra d’apertura del museo.
Certo, il momento più emozionante è a teatro dove tutto è in scena dal vivo, dove Kentridge può prendere in giro l’idea di entropia e il destino (l’aneddoto iniziale della favola che il padre gli raccontava da bambino), con il disco lanciato da Perseo che colpisce un povero innocente perché, appunto, non può fallire il suo destino. Dove il fallimento è anche nel tempo progressivo, che dovrebbe scandire il progresso, che invece è smentibile da gesti e azioni fantasiosi o dalla irriverente fantasia del pensiero. Ecco, il MAXXI potrebbe ripartire simbolicamente da qui, dalla libertà della fantasia e della ragione mostrate da un artista, come buon augurio per la ripresa di questo museo troppo spesso tormentato.
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