La avventure del barone Greenaway |

di - 2 Gennaio 2019
Sedersi in un cinema e ascoltare Peter Greenaway è un po’ come entrare nella casa degli specchi. Specchi particolari, che riflettono non solo il presente ma anche gli altri tempi dell’indicativo. L’occasione è la presentazione nel cinema La Compagnia della sua ultima fatica, un biopic su Costantin Brancusi, Walking to Paris. L’ artista romeno, nel 1904, attraversò a piedi l’Europa dalla remota Transilvana fino alla Torre Eiffel, che colpì tre volte con un martello, simbolico cominciamento della sua avventura artistica. Siamo a Firenze, per l’edizione 2018 de “Lo Schermo dell’Arte”, il festival della più inessenziale e quindi necessaria, forme d’arte: la videoarte.
La scena di un vecchio uomo che racconta di un antico viaggio a dei giovani è scena antica. Novello barone di Munchausen il regista inglese intrattiene il pubblico in teatro, ricordando l’incredibile viaggio dello scultore romeno, realmente avvenuto, ma povero di informazioni certe. Così, in un delicato gioco di rifrangenze, Greenaway riprende documenti, disegni e diapositive della propria vita, ricreando un viaggio a due, che attraversa e riunisce l’Europa. Aiuta in questo compito la comune tempra d’artista, di individui che scelgono forme e stili con cui raccontarsi e tramandarsi. La fisicità del viaggio, di questo umile Grand Tour del pastore erdèlyano, personifica in modo del tutto inconsapevole l’anatomica torsione de “l’Uomo che Cammina” di Rodin, che sarà suo maestro. Nel bronzo di questa statua è già tutta definita la kìnesis di Brancusi, simbolo e attore del cammino, oggetto e soggetto d’arte. E sarà Greenaway a dissotterrare i semi della sua arte per ritrovarne i propri, sospinto dai ricordi della sua Land Art di gioventù. La stessa con cui Brancusi costruirà torri di legna e mele, equilibrismi di ciottoli, schermi di rami e bastoni, figure concentriche di neve e pendii. In attesa di quel marmo che, per la poetica dello scultore romeno, non esprimerà nient’altro che la propria essenzialità materiale. Dopo 35 anni di capolavori di finzione e illusione, dopo i 30 milioni di gradazioni di colori della Ronda di Rembradt in Nightwatching, Greenaway sceglie di uscire da ogni labirinto cromatico, alla ricerca di colori materni, terrosi, acquatici, silvestri.
Peter Greenaway a Lo Schermo dell’Arte
‹‹Fin da giovane avevo fame di paesaggi, di mappe e di narrazioni››. Nella famiglia Greenaway vi erano grandi osservatori, capaci di distinguere ogni foglia, pianta e arbusto del Woodland inglese. Saper osservare come diritto di nascita. L’ossessiva proporzione di 2/3 tra cielo e terra della pittura paesaggistica, le scale di colori del verde olandese, le mappature nere e rosse di A Walk Through H, la cornice nera del disegnatore di Compton House, i torrenti di Waters Wrackets. Il nostro senso di visione nasce dalle definizioni dei nostri padri. La costruzione dall’artefatto del regista inglese assume contorni di un’esperienza nostalgica e straniante, con i landscapes della sua memoria prossimi più alla parola che all’immagine.
Un confine tra cornice e materia, che sgorga dai rivoli del discorso, come il racconto di Greenaway che si diluisce in suoni d’acqua, immagini in VHS, vecchi dialoghi in analogico. Lontani i tempi dell’architetto Kracklite de Il Ventre dell’Architetto, circondato da una selva di possenti statue e maestosi monumenti romani. Il duo Greenaway-Brancusi si libera di ogni fardello per tornare tra declivi, boschi e ruscelli, tracciando caratteri di una natura cruda e vergine, scolpendo giocosamente forme plastiche destinate a scomparire. Perché in fondo la vera scultura che cammina attraversando, è proprio l’uomo.
Se l’acqua di The Seventh Wave sommergeva ogni spazio e anfratto fisico (dunque politico), quella de l’Ultima Tempesta esaltava la forza creativa e manipolatrice dell’artista. Ma è al primo Water Wrickets che il regista che si rivolge, con quella primitiva forma di libertà giovanile, ribelle e rigogliosa in grado di travolgere ogni delimitazione. Come le cornici nere usate dal draughtsman di Compton House, finzione artificiale di un occhio che ignora tutto ciò che è “al di fuori dell’inquadratura”, così l’attraversamento di Brancusi di quella Mitteleuropa di inizio ’900 si dichiara come rivolta contro ogni mappatura politica che la inquadra, la taglia e la ferisce.
Walking to Paris di Peter Greenaway
In questa immagine vi è tutta l’avventura intellettuale di Greenaway, sempre alla ricerca di un senso profondo delle cose, pregne al contempo di atti audaci quanto fallimentari. I personaggi di Greenaway sperimentano e soccombono, non Brancusi. Che sfida la natura e vince. Egli ha già negli occhi una materialità diversa, non simbologica o metaforica, ma dura grezza: è pietra, metallo, bronzo luccicante. Quello di cui si ha bisogno di questi tempi.
Per Greenaway i luoghi e le passioni divengono performativi fino allo stremo, alla ricerca di percorsi sempre nuovi, in grado di ridisegnare architetture dei sensi esterni e delle emozioni interne. In un avventuroso gioco di rimandi, il sogno di Brancusi si tramuta in marmo, le immagini di Greenaway in pellicola e le forme digitali dello schermo in visione ambientale. E se la corporeità tipica di Greenaway viene articolata, smembrata, derisa, esaltata, qui, alle Murate, l’affascinante spazio scelto per l’edizione 2018 di VISIO, la mostra a cura di Leonardo Bigazzi nell’ambito dello Schermo dell’Arte, quella sensazione di deperibilità corporea tipica del regista inglese scompare.
Lo spazio fuori dagli schermi, i piani, i corridoi, le celle libera quella matrice architettonica stereofonica e aptica che il regista ha sempre prescritto affinché vi sia Arte. Le proiezioni in ambienti imprevisti, difficili da raggiungere, immersive o indifferenti ci costringono a un percorso individuale, accidentato, che la teorica Giuliana Bruno definisce una «mobile, corporea, emozionale attivazione di pubbliche intimità». Ogni ambiente disseminato di schermi è come una pellicola, una “membrana avvolgente” che apre a uno spazio psichico interiore e sospeso.
Gli artigli dell’aquila di Sadak nel video Staying wth trouble di Alyona Larionova mostrano plasticamente la necessità di lasciarsi afferrare dai sensi, da una tattilità primitiva quanto silente. Nel gioco di sguardi e di attese tra l’addestratore e il rapace sta tutta la cifra di una natura ancora in grado di imporre le proprie leggi.  Quella stessa forza che irrompe in Mum, I’ m Sorry di Martina Melilli, che restituisce orologi, vestiti, documenti, foto (appartenuti a migranti annegati nel Mediterraneo) sotto forme di sostanza elementare, simile a sabbia, a acqua marina, a pelle segnata.
Esperienze di terra, opposte alla vertigine tridimensionale di Paris City Ghost di Vincent Ceraudo, il cui equilibrismo dronico si sincronizza con un’incisiva sistemazione su uno schermo posto di fronte a un ballatoio. Le immagini aeree in bianco e nero di Tianducheng, rarefatto sobborgo di Hangzhou e della sua Tour Effeil cinese accerchiata da boulevard e grattacieli in costruzione, producono una traballante percezione di ambiguità spaziale e storica, rinforzata da una sensazione di altezza e precarietà. La nuova e sempre più diffusa appercezione fyborg entra in netta collisione con una concezione progettuale del vivere immaginata secoli fa. Le ampie inquadrature, gli specchi d’acqua neri, il cemento bianco, il ferro grigio rendono sulla murata un effetto parietale intimo e onirico assieme. Una caratterizzazione che condivide con Imperial Valley (culivated run-off) di Lukas Marxt, le cui tinte verdi, ocra e beige tendono a una spietata regolarità desertica, sabbiosa quanto intensiva. Tecnologie e idee. Siamo pronti ad accogliere nei nostri spazi una dimensione estetica coinvolgente, sfacciata, ma anche imprevedibile e dolorosa? La dimensione abitativa e decorativa richiede una forza empatica reale, sincera. Che è quello che ci ha sempre chiesto ogni artista, da Peter Greenaway fino al più giovane dei visual artists. Guardare senza paura.
Domenico Sgambati

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