Non lontano da Pico, là dove si ergeva il palazzo aristocratico di Tommaso Landolfi, formidabile scrittore del Novecento, sorge Collepardo. Un piccolo borgo che custodisce in sé un monumentale complesso monastico, circondato dai boschi dell’entroterra laziale. Il monastero, nel XIII secolo, fu assegnato da papa Innocenzo III all’ordine dei Certosini che se ne presero cura nel corso del tempo. Diventata patrimonio pubblico nel 2021, la Certosa di Trisulti ha aperto le sue porte all’arte. Fino al 28 settembre è possibile visitare al suo interno l’antologica Elementa di Riccardo Monachesi (Roma, 1954), curata della storica dell’arte Simona Ciofetta e sostenuta dalla Direzione Generale Musei Nazionali Lazio.
Le fondamenta di Collepardo poggiano su un rilievo dei Monti Ernici, nel Lazio meridionale, in un’area geograficamente vincente per l’adiacenza al fiume Acquosa. Laddove nel 1960 sono stati ritrovati i resti dei primi insediamenti.
Nel millecento signoreggiava nel borgo un castello dell’antica famiglia Colonna, chiamato in latino “tres saltibus”, poiché dominava tre valichi che conducevano rispettivamente a Roma, in Ciociaria e in Abruzzo. Del castello oggi restano soltanto rovine, ma il nome del maniero fu esteso a tutta l’area intorno al Monte Rotonaria, dove nacque la Certosa, per questo denominata “di Trisulti”. L’abbazia conobbe ampliamenti e trasformazioni nel corso dei secoli. Del periodo medievale restano un’effige leonina proveniente dalla chiesa e il Palazzo di Innocenzo III, nel quale si trova la Biblioteca Nazionale della Certosa, costituita da circa 36mila preziosi volumi.
Il complesso monastico si arricchì della sala capitolare, delle celle e del refettorio. Della pescheria, del cimitero, del grande chiostro, dei giardini e infine della meravigliosa farmacia. Preceduta da alcuni ambienti affrescati tra il Sette e l’Ottocento dal pittore napoletano Filippo Balbo, venendo così a contare 80mila metri quadrati di estensione. La Certosa di Trisulti – che alcuni anni fa rischiò di finire nelle mani di una fondazione religiosa ultra conservatrice americana (ne scrivevamo più diffusamente qui) – resta a oggi intatta.
Le sculture in creta di Riccardo Monachesi si fanno strada in tutti gli ambienti della Certosa, sia esterni che interni, con una sensibilità mimetica e non intrusiva, votata alla serialità. Una triade di sagome amorfe si specchiano nel laghetto della Certosa, anticipando le conchiglie sospese – legate al pellegrinaggio e alla residenza dell’artista a Santiago del Cile nel 2015.
Alle forme fitomorfe collocate nel giardino seguono i cosiddetti Pneumi. Sculture in creta semirefrattaria e smalti, tendenti verso l’alto, simili ad alte anfore mosse e cave. Alcune delle quali si richiamano alle nature morte di Morandi e a reminiscenze bibliche. Nel coro della chiesa si trovano i policromi Cubi pieni, in ricordo dei monaci che sedevano lì. Altri Pneumi appaiono nelle piccole cappelle annesse alla chiesa centrale.
L’iter continua, poi, con altre serie: i papaveri, le formelle-ideogrammi che rispettano la proporzione aurea, cara all’artista, le Orme, le Ali realizzate nell’antico studio di Antonio Canova a Roma, le Semilune, i Traguardi, gli Specchi, i Trittici, i Disassi, i Do ut Des. Fino a creazioni che si rifanno alle costellazioni dello zodiaco, alla via Crucis, a San Sebastiano.
«L’arte di Monachesi non è sommessa, ma forte», ha commentato la curatrice alludendo all’eclettico linguaggio astratto che lo scultore ha costruito per narrare non una, ma un’infinità di storie attraverso i suoi frammenti, o meglio elementi, di creta. «Mi interessa la frantumazione dell’immagine – ha commentato Monachesi – l’unità che si fa molteplice. Che poi, allo sguardo, è simile al concetto opposto: la molteplicità che concorre a creare un insieme semantico».
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