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17
febbraio 2014
La Cosmogonia meccanica di Gianni Piacentino
Progetti e iniziative
Artista fuori dal coro, ma sempre coerente. Non etichettabile: né poverista né minimal, sebbene coevo, a volte precursore di alcune ricerche americane. Gianni Piacentino arriva a Roma, ora alla fondazione Giuliani e prossimamente alla galleria Giacomo Guidi. E cattura lo sguardo. Esattamente come cinquanta anni fa. Quando, giovanissimo, ha iniziato a farsi largo nel mondo dell’arte
La Fondazione Giuliani di Roma inaugura la stagione espositiva 2014 con una personale di respiro museale, curata da Andra Bellini, con ben 23 pezzi di un artista (dal 1965 al 2000) che per molto tempo è stato considerato dall’establishment un outsider. Si tratta di Gianni Piacentino, nato a Coazze in Piemonte nel 1945, iscritto a Filosofia a Torino, dove per due anni segue i corsi di estetica di Gianni Vattimo che però abbandona presto per dedicarsi totalmente al mestiere d’artista. Giovanissimo, ad appena 21 anni, espone in una mostra che è rimasta una pietra miliare della storia dell’arte contemporanea italiana: la collettiva “Arte Abitabile”, inaugurata nel giugno 1966 nella galleria torinese di Gian Enzo Sperone, dove Piacentino espone le sue prime strutture scultoree, fra cui Blue, Purple Big L, Triangle, Dark Dull Pink Large X, Silver Small Pole e Silver-Gray Table Sculpture. Si tratta di una mostra che lo vede accanto a Piero Gilardi, che poco dopo lascerà l’arte per dedicarsi all’attivismo politico, e a Michelangelo Pistoletto che presenta i suoi Oggetti in Meno.
Ma come mai in un momento di temperie artistica fecondo come quello della Torino degli anni ’60 in cui le ricerche e gli stili sembravano confluire in un’unica direzione, il giovane Piacentino, senza aver mai visto le opere del Minimal Americano, incomincia a realizzare dei lavori che sono il contraltare italiano di quel tipo di ricerca? In quella prima metà degli anni Sessanta proprio a Torino, la prima città industriale di Italia, si stava formando quell’incredibile gruppo di artisti poi battezzati da Germano Celant, che fu il loro mentore, dell’Arte Povera. Gianni Piacentino, il più giovane e il meno stilisticamente uniformato del gruppo, muove quindi i suoi primi passi sul palcoscenico del contemporaneo con dei compagni di strada del calibro di Paolini, Calzolari, Pistoletto, Gilardi, Zorio (che era l’assistente di Pistoletto), Fabro e Anselmo e, infatti, nel 1968 partecipa alla collettiva “Arte Povera”, curata da Germano Celant, alla Galleria dè Foscherari di Bologna.
Proprio nel biennio 1967/68 Piacentino lavora in una fabbrica di vernici dove approfondisce scientificamente il suo interesse per i cromatismi e le finiture lucide e specchianti dei colori industriali. Questa passione per l’estetica perfetta e rifinita e l’uso libero del colore avvicina fin dagli esordi il suo lavoro a quello degli artisti del West Coast Minimalism, cioè il Minimalismo californiano più levigato e rifinito di quello della East Coast, che in quegli anni propone alcuni artisti eccellenti come John Mc Cracken e Robert Irvine. È chiaro che un minimalismo geometrico e raffinato con una ricerca estetica del colore e della finitura come quello che Piacentino modula nel suo lavoro, è in netta antitesi con l’estetica poverista degli artisti che in quel momento in Italia erano considerati mainstream ed è per questo che dopo la rottura con Gian Enzo Sperone nel 1969 Piacentino decide di correre da solo, inseguendo un suo ideale artistico rigoroso e preciso che lo farà apprezzare all’estero (dal 1970 comincia la sua collaborazione con la galleria Onasch di Berlino e la Konig Galerie di Ginevra, nel 1972 ha una personale al Palais des Beaux-Arts di Brussel e nel 1977 partecipa alla Documenta 6 a Kassel), mentre lo fa considerare in maniera marginale in Italia dove non gli perdonano l’indipendenza creativa, troppo originale per essere capita e “troppo” vicina al design industriale.
Tutta l’opera di Piacentino si potrebbe definire come una “Cosmogonia meccanica” (A. Bellini, testo in catalogo, Gianni Piacentini, Ginevra CAC), iniziata come una riflessione sulla pittura e sulla struttura architettonica del quadro. Anche lui, come Giulio Paolini, mette a nudo il telaio che tiene tesa la tela del quadro, ma ne ingigantisce gli elementi strutturali come non si era mai visto. Emblematiche a questo proposito sono opere come i grandi Monocromi dai colori opalescenti e sapientemente cromati come per le carrozzerie di lusso, D.S.O. (1965) costituita da tre grandi cornici di grandezza decrescente una dentro l’altra ognuna smaltata e lucidata con dei colori rivoluzionari per l’epoca: rosa pallido, argento e lilla, o AMARILLIS (1965) o la serie delle aste che, altro non sono, che le parti ingigantite dello scheletro di un quadro. Poi, nel 1968, ecco la svolta dopo aver restaurato una moto Americana del 1930: inizia a realizzare una serie di modelli di veicoli aerodinamici a due o tre ruote ognuno “firmato” con il “brand” GP (Gianni Piacentino), scelta decisamente coerente con l’amore dell’artista per un’estetica pulita e perfetta che non poteva essere “sporcata” da una firma. «Ho cominciato a mettere le mie iniziali perché il problema della firma mi ha sempre disturbato. È un problema che l’industria ha già risolto», dichiara.
La firma diventa quindi un Logo, che emula nella grafica decisamente classica quelli di MG, Ford e Fiat in modo da eliminare qualsiasi tipo di evidenza autobiografica, così da dare all’opera quell’aurea di apparente fredda impersonalità. Lo spazio della Fondazione è punteggiato dalle opere che si alternano armoniosamente come fossero note su uno spartito musicale, ci sono le aste, sia grandi che piccole, come Dark, Red-Purple Small Pole III e Yellow-Pink Two Parallel Poles queste ultime due esposte nella prima sala dove sul fondo sembra emergere dal muro l’incorniciatura di una porta più mentale che fisica, l’opera Dark Prussian Blu Portal IV, nella seconda sala sul muro di destra i grandi monocromi invadono la parete mentre di fronte si staglia la silhouette elegante di uno dei suoi veicoli in tubolare di ferro nikelato. Nell’ultima sala i veicoli sono installati alternati con le “Windows” e le “poles” in un perfetto contrappunto visivo fra architetture platoniche non funzionali, ma che rendono l’idea dell’essenza dell’architettura e quei meravigliosi modelli, perfettamente aereodinamici e irresistibilmente attraenti, che simboleggiano la velocità e riattualizzano quell’estetica deco che è stata il non plus ultra dell’eleganza e della ricercatezza estetica.
Ogni stanza è una sorpresa ed è la prima volta che in Italia il pubblico può ammirare una selezione filologicamente così precisa di opere di questo outsider (provenienti per lo più da varie collezioni private) che si è rivolto all’indagine della meccanica della realtà e che in un’intervista a Giacinto di Pietrantonio ha affermato: «L’Arte Povera difendeva la natura, mentre io sono sempre stato più vicino alla natura tecnica delle cose. Io credo che il paesaggio della nostra epoca è anche quello delle macchine e degli aeroplani e di tutti i supporti tecnologici…d’altronde oggi vediamo più ruote che alberi nelle nostre vite».