La fotografia al potere

di - 29 Ottobre 2012

L’obiettivo del Prix Pictet, arrivato al suo quarto anno di vita, è utilizzare la fotografia per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza ambientale e le sfide sociali poste dal nuovo millennio. E per la quarta volta la banca svizzera Pictet&Cie ha elargito una cospicua somma a un fotografo, attribuendogli il premio omonimo per un lavoro di lungo respiro su un tema che punta l’obiettivo sulla sostenibilità. Inoltre, ogni anno viene scelto un fotografo esterno al premio per una missione in luoghi o situazioni difficili dove la banca svizzera ha già deciso di apportare aiuti economici per migliorare le condizioni della vita umana e terrestre. Come partners Pictet&Cie ha alcuni media internazionali, come il Financial Times e l’editore tedesco teNeues. Gli anni precedenti i temi affrontati sono stati l’Acqua nel 2009 (vincitore Benoit Aquin), la Terra nel 2010 (Nadav Kander), la Crescita nel 2011(Mitch Epstein).

Carl De Keyzer. Prix Pictet, 2012. Londra, Saatchi Gallery

Quest’anno il tema è Power, il potere, l’energia, la potenza, secondo la polisemia della parola inglese. Il Prix Pictet è anche uno dei premi fotografici più prestigiosi e generosi: presidenza di Kofi Annan, giuria internazionale, 100mila euro di premio e una mostra itinerante in luoghi istituzionali e privati, edizione del libro con le immagini dei dodici finalisti a cura dell’editore tedesco teNeues. La premiazione ha avuto luogo l’8 ottobre a Londra, quando si è inaugurata la mostra alla Saatchi Gallery, la cui programmazione autunnale è interamente dedicata alla fotografia, con l’eccezione della celebre installazione di Richard Wilson 20:50. Dalla capitale inglese il Prix Pictet si è spostato a Monaco, presso la Bernheim Fine art Photography (24 ottobre-8 novembre). Sarà poi a Parigi per tutto novembre, in concomitanza con Paris Photo e con il Mois de la Photo, alla Galleria Vanessa Quang, per poi andare a Beirut e Istanbul e concludere il tour, nel 2014, a San Diego nella sede del MOPA.

Mohamed Bourouissa. Prix Pictet, 2012. Londra, Saatchi Gallery

La premiazione è stata accompagnata da due conferenze sulla questione del potere declinato in tutte le sue forme e su come il visivo, in particolare la fotografia, possa rendere conto delle dinamiche del potere sia nelle sue manifestazioni positive e negative che nelle conseguenze fisiche e psicologiche. A Londra i due relatori della lectio erano Michael Fried, celebre critico e saggista americano, autore, tra altri libri conosciuti, di Why Photography Matters As Art As Never Before, e Leo Johnson, uno dei promotori della finanza sostenibile e docente di economia e di crescita sostenibile.

I selezionati in mostra sono dodici, professionisti che alla fotografia spesso affiancano il lavoro di ricercatori nei più diversi ambiti: Edmund Clark, inglese, insegna storia contemporanea, ha tradotto in immagini il suo lavoro documentando in modo secco e forte i luoghi di detenzione dove il potere esplica più o meno silenziosamente l’annientamento dell’altro come a Guantanamo. Philippe Chancel è invece giornalista e reporter francese che da tempo fotografa il potere distruttivo della natura e qui presenta un emozionante lavoro su Fukushima. Lo spagnolo Daniel Beltrà da anni segue le campagne di Greenpeace, è autore di immagini delle catastrofi ambientali marine, impressionanti per l’immensità del disastro ma anche per la loro inquietante bellezza. Mohamed Bourouissa, giovane di origine algerina che, a partire dalla tesi di fine studi, costruisce immagini di set dove la tensione delle bande della periferia parigina è fisicamente palpabile.

Carl de Keyzer, belga, è invece un fotografo puro: membro della Magnum e autore di libri che riflettono sul rapporto tra la storia di un luogo e la memoria che ne elaborano gli abitanti, ma che in questo caso lavora invece sul drammatico problema dell’innalzamento del livello dei mari in ambito europeo. Così come sono fotografi a tempo pieno Joel Sternfeld, americano, dal 1987 impegnato sui temi della distruzione e della sostenibilità del pianeta, che ha presentato una serie di ritratti di politici e di leader che riflettono sui problemi ambientali, costruendo un’illuminante galleria di volti tesi e preoccupati, e il sudafricano Guy Tillim, che, oltre ad essere autori di immagine del suo Paese che hanno fatto il giro del mondom, segue da parecchi anni le altalene del potere congolese mostrando le facce di un potere che non si pone limiti.

L’americano Robert Adams si interroga sulle contraddizioni tra le bellezze della natura e l’intervento umano, sempre in un’estetica al limite tra idea del bello e del degrado. Rena Effendi, nata in Azerbaijan, emigrata da ragazza negli Stati Uniti, ha lavorato su Chernobyl post catastrofe nucleare, dopo anni di approfondite indagini visive sull’impatto delle pipeline sugli abitanti georgiani, russi e turchi.

Molto interessante è il lavoro dell’olandese Jacqueline Hassink che ha fotografato uffici e luoghi di lavoro delle donne arabe che hanno acquisito il potere economico e politico, mentre An-My Lê, la cui famiglia vietnamita si è rifugiata nel 1975 negli States, ha seguito le operazioni militari del centro 29Palms dei marines americani che si apprestavano a partire per l’Iraq.

Su tutti questi nomi prestigiosi e sui loro lavori altrettanto importanti e perfettamente allestiti alla Saatchi Gallery, ha prevalso Luc Delahaye. Francese, poco più che cinquantenne che, dopo aver collaborato per parecchi anni con due agenzie di fama come Sipa e Magnum come reporter di guerra, ha chiuso una decina di anni fa ogni rapporto lavorativo con la stampa dedicandosi alla fotografia d’artista. La sua scelta ha fatto discutere, suscitando le reazioni viscerali nei colleghi della Magnum e il rifiuto da parte degli autori che più si collocano sul versante “artistico”. Ma è una scelta coraggiosa, che non abbandona il tema fondante della ricerca: tutto ciò che ruota attorno ai conflitti armati, ma sceglie un percorso diverso, meno conforme che mette sullo stesso piano il lavoro di documentazione sul campo, i teatri di guerra, i conflitti internazionali, i meeting dei leader sulle questioni di fondo dei giochi di forza internazionali, e al contempo si impegna sulla costruzione di una composizione narrativa che trova nei grandi formati il luogo più consono per la sua estetica.

Un lavoro che colloca Delahaye sul crinale tra documentazione e costruzione narrativa, in un’altalena che lo avvicina da un lato alla scuola tedesca dei Becher e ad alcune ricerche di Jeff Wall (in particolare i grandi formati sulla guerra) e, dall’altro, alla tradizione del grande reportage di guerra e del conflitto di Gilles Peress, per esempio. Tra empatia immediata verso la situazione ritratta e distanza intellettuale, che Luc Delahaye rivendica come necessarie per capire e controllare le dinamiche in corso, il suo è un esercizio personalissimo che evidenzia un equilibrio interessante tra narrazione generale e attenzione al dettaglio. La premiazione ha colto nel segno dei tempi: Luc Delahaye è forse uno dei pochi autori in grado di entrare nei modi della fotografia documentaria costruendo una narratività fortemente estetica.

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