La fotografia sulla scena del crimine |

di - 29 Febbraio 2016
“La fotografia, che sembrava consegnarci il mondo così com’era, è divenuta la miglior prova della relatività e dei limiti del nostro modo di vederlo. In essa, il potere d’ingannare si è rivelato pari a quello di comunicare. Solo la ricerca […] sulla natura delle immagini è ormai capace di mostrarci, attraverso queste pericolose ambiguità, in qual modo la fotografia può essere maestra di verità.” Il controverso rapporto tra fotografia e verità, espresso dalle parole dello studioso francese Jean-Claude Lemagny nella sua Storia della fotografia, è tra le più interessanti chiavi di lettura proposte dalla mostra “Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni” (fino al 1 maggio), curata da Diane Dufour presso CAMERA- Centro Italiano per la Fotografia- con la collaborazione del centro LE BAL di Parigi, della Photographers’ Gallery di Londra e del Nederlands Fotomuseum di Rotterdam; una coproduzione di respiro internazionale che conferma la sinergia del Centro torinese con le realtà nazionali e internazionali.
Il crimine è protagonista di un percorso espositivo che offre al visitatore, tra curiosità macabra, voyeristica e scientifica, l’occasione di percorrere la storia della fotografia forense, indagando da una prospettiva inconsueta il linguaggio fotografico. A causa dei propri limiti tecnici, l’obiettività della fotografia è suscettibile di essere messa in discussione e Il crimine, soggetto enigmatico per eccellenza, diviene il pretesto per verificare i limiti e le potenzialità delle immagini. La mostra propone in successione cronologica undici casi emblematici delle peculiarità della fotografia forense, riflettendo sulle possibilità interpretative, sul significato e sulla capacità dell’immagine di segnare la storia, condizionando il punto di vista e il giudizio sulla realtà.

A partire dalla fotografia metrica, messa a punto agli inizi del Novecento da Alphonse Bertillon mediante l’esame di casi di omicidio, si passa agli studi analitici per il rilevamento di tracce, segni, impronte condotti, sempre a partire da inizio secolo, da Rodolphe Archibald Reiss. Immagini che appaiono indici rivelatori di dettagli altrimenti invisibili. E, in questo senso, emblematiche sono le prime fotografie della Sacra Sindone scattate da Secondo Pia nel 1898, che inaugurarono il dibattito scientifico sull’autenticità della reliquia.
L’incidenza dello sviluppo tecnologico e l’introduzione di nuovi mezzi come l’aeroplano, hanno profondamente influito sulla fotografia il cui impiego, da parte dell’aviazione inglese durante il primo conflitto mondiale,  ha permesso di consegnare alla storia e alla memoria collettiva immagini di confronto fra la fase precedente e successiva ai bombardamenti.
Il confronto come metodo scientifico di indagine costituisce il banco di prova delle possibilità offerte dalla fotografia. Emblematico è, in questo senso, lo studio effettuato nel 1985 per il riconoscimento delle ossa di Mengele, il ‘macellaio di Auschwitz’. Immagini inquietanti e sinistre che accostano vita e morte sono ottenute con la tecnica scientifica della sovrapposizione fotografica volto-cranio, elaborata dal patologo Richard Helmer.
La restituzione dell’identità assume sfumature diverse – ma sempre cariche di angoscia e orrore – nella successione dei volti delle vittime del Grande Terrore, nell’Urss del 1937-1938. In questa sequenza lo scopo puramente pragmatico con cui la fotografia è stata impiegata passa in secondo piano, mentre si amplifica in un crescendo lo sgomento per le dimensioni dell’efferatezza di un crimine di Stato. Ma il caso più eclatante del potere dell’immagine di testimoniare la verità è rappresentato dal film-documentario- proiettato in mostra- usato durante il processo di Norimberga, nel 1945, contro i criminali nazisti.

La fotografia si misura anche con i propri limiti tecnici. La soluzione del caso relativo alle rivendicazioni territoriali dei beduini nel deserto del Negev, nei confronti dello Stato di Israele, è affidata ad immagini poco nitide, che gli inglesi della RAF scattarono in quell’area della Palestina alla fine del secondo conflitto mondiale. Le immagini che potrebbero provare l’antica appartenenza dei beduini a quei luoghi, riportano segni e tracce poco chiare, lasciando aperta ancora oggi una controversia dalle pesanti implicazioni politiche e civili. Gli effetti della guerra mettono in costante pericolo l’identità e la memoria degli spazi .
La mostra collaterale dell’artista italiano Antonio Ottomanelli “Kabul+Baghdad” (fino al 13 marzo) lavora proprio su questi concetti con due progetti espositivi realizzati, rispettivamente, nei più attuali scenari di conflitto: l’Afghanistan e l’Iraq. La formazione in Architettura dell’artista emerge già a partire dalla scelta del soggetto: lo spazio urbano. Nel progetto Big Eye Kabul (2012-2013) la fotografia diviene uno strumento congeniale, una sorta di rilevatore delle tensioni sociali percepibili nelle aree assediate, oppresse e sotto controllo. La sensibilità dell’artista risiede nella capacità di cogliere i segnali di questo clima e suggerirne le sensazioni, con immagini che colgono l’incombente e costante presenza dei dirigibili americani che sorvolano costantemente il cielo di Kabul, come un Grande Fratello che registra e rileva ogni aspetto della vita quotidiana. Big Eye è, infatti, il nome con cui sono soprannominati questi dirigibili che vengono, a loro volta, osservati dall’obiettivo dell’artista. Un ribaltamento del punto di vista si attua anche nel progetto Mapping identity (2012) realizzato a Baghdad. Lo spazio urbano diviene il campo di indagine sul quale si confronta la memoria di diversi studenti universitari, chiamati a realizzare una mappa della città sulla base dei propri ricordi. Dalla volontà di ricostruire la memoria di luoghi soggetti a ripetuti attacchi e conseguenti cambiamenti, emerge uno straordinario e personalissimo confronto tra opere che sono espressione del vissuto individuale di ciascun studente.

Lo spazio urbano è anche uno dei soggetti delle opere dell’artista francese Lise Sarfati che con la mostra “Oh Man” (2012-2013)- curata da Francesco Zanot e allestita nella Project Room del Centro (fino al 13 marzo) – presenta il suo ultimo lavoro realizzato nella Downtown di Los Angeles. Paesaggi urbani, atmosfere metafisiche, in cui si muovono uomini isolati che sembrano contestualizzarsi con il paesaggio, tra edifici tipicamente americani, definiti da geometrie nette, esaltate da una luce chiara e nitida che scandisce il ritmo dell’immagine. Il paesaggio stesso diviene persona, in questo interscambio con uomini colti inconsapevolmente dall’obiettivo dell’artista francese che, attraverso undici scatti, sembra proporre in chiave contemporanea un tema- quello dell’uomo nel paesaggio- che affonda radici remote nella storia dell’arte.
Manuela Santoro

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